giovedì 24 febbraio 2011

The Killer - 24 febbraio 2011

Titolo originale Die xue shuang xiong

Anno 1989; Durata 111 min; Colore;

Genere azione, thriller, drammatico

Regia, soggetto, sceneggiatura John Woo

Prodotto da Tsui Hark

Sinossi

Un malinconico killer è intenzionato a ritirarsi, ma intende prima sdebitarsi con una bellissima cantante che ha reso cieca dopo averla ferita accidentalmente. Il sicario vorrebbe pagarle la costosa operazione che potrebbe ridarle la vista e accetta quindi una missione, ma un poliziotto testardo e determinato si mette sulle sue tracce. I due si inseguono e si evitano, ma quando si incontrano daranno vita a un'amicizia impossibile che li coinvolgerà oltre ogni limite.

Un eroe romantico

Da tempo Woo voleva fare un film d’amore. Trovò la disponibilità di Tsui Hark e lo fece. Ebbe piena libertà espressiva e “The Killer” è davvero una storia d’amore. E’ anche un tributo a Pekimpah, nella scena finale in cui il montaggio mozzafiato mantiene una tensione estrema. E’ un omaggio a Jean Pierre Melville, nello sviluppo narrativo basato su codice d’onore, lealtà, cavalleria; caratteristiche orientali ma che segnano il lavoro di molti cineasti occidentali.

Il regista

John Woo è considerato uno dei maestri del cinema asiatico, in particolare dei film d'azione. Grazie al fortunato sodalizio con Tsui Hark produttore, e con Chow Yun-Fat, Leslie Cheung e Danny Lee protagonisti, Woo ha collezionato una serie di successi memorabili come A Better Tomorrow I e II (1986, 1987), seguiti da The Killer (1989), Bullet in the head (1990) Once a thief (1991) e Hard Boiled (1992), l'ultimo girato a Hong Kong prima di trasferirsi negli Stati Uniti. A Hollywood si è fatto notare con Face/Off (1997), Mission Impossible 2 (2000), Windtalkers (2002). Un suo recente lavoro (2008) è il kolossal storico La battaglia dei tre regni, oltre quattro ore di cinema epico. Woo ha diretto 39 film ne ha prodotti 29, interpretati 22, sceneggiati 24.

Lo stile

La poetica di “The Killer” si basa su valori fondanti: lealtà, onestà, onore. I due personaggi protagonisti (il killer ed il poliziotto) rappresentano gli stessi valori, sono eroi positivi.

Quando gira “The Killer” Woo ha alle spalle una lunga esperienza, vissuta inizialmente a fianco dei grandi maestri del cinema honkonghese e principali protagonisti delle innovazioni stilistiche che, a partire dalla fine degli ani ’60, porteranno allo sviluppo della “new wave” degli anni ’80.

Nel cinema di Woo vi sono elementi di stile tipici della cinematografia honkonghese. Il montaggio costruttivista[1] è usato per imprimere ritmo e velocità alla narrazione. E’ usato, ad esempio, nelle sparatorie: non si vede mai cadere qualcuno; la sequenza viene spezzata inserendo chi spara. Il montaggio parallelo[2] è la struttura fondante di “The Killer”. Attraverso questa tecnica il passato ritorna per suggerire le analogie col presente, la storia si ripete, sono mostrate le affinità elettive fra i protagonisti, infine il destino si compie. Su questa figura è costruito il film sia per stabilire un rapporto di analogia fra il killer ed il poliziotto e sia per suggellare un destino, come nelle ultime scene.

Il ralenti[3] è una figura idealmente contrapposta al montaggio perché costringe alla contemplazione dove il montaggio mescola, inserta, disgiunge. Il ralenti viene usato da Woo per ridare peso alla realtà che disseziona in una miriade di inquadrature. Attraverso l’uso del ralenti, quindi, Woo ottiene l’alternanza di ritmo narrativo. A volte esso è usato come momento di contemplazione.

Il punto di arrivo di questa estetica è il fotostop: il film che smette di scorrere verso il destino prefigurato in una sorta di congelamento. Il fotostop sui sorrisi di Chow Youn Fat e Danny Lee (il killer ed il poliziotto) sul finire della narrazione, hanno il sapore della nostalgia. Ecco allora che con Woo il cinema frammentato e rapidissimo è anche un cinema della contemplazione.

Il cinema di Woo ha rappresentato una forte innovazione, non solo nello stile, ma anche nella messa in scena della violenza: la frammentazione del montaggio e la logica spettacolare e millimetrica dei raccordi hanno fatto si che le uccisioni diventassero momenti di puro dinamismo con effetto euforizzante. Lo stile di Woo è uno stile alto che non cerca tanto di rendere bella la violenza quanto di darle una dimensione tragica.

Giuseppe Esposito

Gruppo cinema Arsenale Rosebud


Testi in parte tratti da:

- Alberto Pezzotta “Tutto il cinema di Hong Kong” – Baldini & Castoldi 1999



[1] Montaggio costruttivista - Un’azione viene spezzata in vari segmenti, ognuno reso da un piano diverso, in modo che lo spettatore costruisca una visione unificata

[2] Il montaggio parallelo, inventato da Griffith per il film Intolerance, è usato quando si vuole accostare due eventi, non necessariamente contemporanei, per mostrarne somiglianze o differenze

[3] Lo slow-motion (traduzione: movimento lento) o ralenti, è una tecnica di ripresa cinematografica usata, come suggerisce il nome stesso, per riprodurre un movimento a una velocità più lenta del reale.

giovedì 17 febbraio 2011

Un tranquillo week-end di paura - 17 febbraio 2011

Un tranquillo week-end di paura. (Deliverance)

Regia: J. Boorman

USA, 1972, durata: 109 minuti, colore.

Protagonisti: Lewis (Burt Reynolds), Ed (Jon Voight), Bobby (Ned Beatty) e Drew (Ronny Cox).

Ritrovo alcune analogie tra Boorman e Kubrick anche attraverso il chiasmo biografico per cui l’uno è londinese e frequenta Hollywood mentre l’altro è newyorkese e vive a Londra. Sono entrambi ossessionati, il loro cinema è ricerca, anche se partono da dei presupposti molto diversi. Oltre che essere degli artisti nel pieno senso della parola sono degli intellettuali, non ci sono dubbi, il loro investimento emotivo e intellettuale nella rappresentazione filmica è maniacale: si mettono costantemente in gioco. Ma tanto Kubrick domina il progetto, quanto Boorman se ne lascia, a volte, dominare, come trascinato in una sorta di incubo. (Vedi film molto interessanti ma discontinui come Excalibur, Zardoz o Duello nel Pacifico per esempio).

Invece in questo caso ci troviamo di fronte ad una regia che nella sua linearità e fluidità ci restituisce una storia che, pur scorrendo in superficie, affonda spesso nel gorgo dell’incubo in modo assolutamente efficace e coinvolgente. La stessa natura delle riprese d’altronde, nella sua sperimentazione e pericolosità, evidenzia la ricerca maniacale del punto di vista più estremo che significativamente esalta il contrasto uomo-natura. Una prova, un viaggio iniziatico, una discesa negli inferi, un azzeramento della civiltà in cui l’uomo cerca il mito, l’illusione di poter rivivere ciò che hanno provato i primi coloni quando si sono inoltrati nel mondo nuovo. Invece i protagonisti saranno assediati dalla miseria, dall’abbruttimento degli abitanti, (dei montanari gozzuti al limite del cretinismo per una sorta di tabe ereditaria), da una natura incontaminata ma ostile e pericolosa e soprattutto indifferente alle peripezie a cui saranno sottoposti. Fuor di metafora uno di loro, Bobby, sarà sodomizzato sotto gli occhi impotenti e sgomenti di Ed.

La violenza scaturisce con tutta la sua forza ponendo, di fronte a questi borghesi avventurieri, una questione morale che tutto sommato rimarrà, nella sua emergenza, irrisolta. Loro stessi per forza di cose sono stati trascinati nell’abbruttimento a cui la natura stessa li ha condotti, dove si lotta per la propria sopravvivenza e si deve fare i conti con le proprie “risorse” più profonde e a volte inconfessabili.

“Quattro i personaggi: l’intellettuale-artista-democratico (Ronny Cox), l’edonista generico e grasso (Ned Beatty), il fusto macho londoniano (Burt Reynolds) che sogna il rinvigorimento attraverso il rapporto con la natura e la violenza, e infine l’uomo qualunque, il portavoce dello spettatore generico, il middle-classe senza destino(Jon Voight).”

Nella discesa del fiume, i quattro personaggi scoprono di fronte all’aggressione della natura le loro vere carte. L’artista è minoranza dalla morale in definitiva suicida e inattiva. Il macho naturista è fascismo, punito nella mutilazione fisica, nell’impotenza. L’edonista è inculato. E mister Ognuno riscopre l’impossibilità della salvezza, la colpa, la notte in cui il lago artificiale della società riporta a galla le mani e gli incubi della morte e del profondo.

Le croste ideologiche ricevute si frantumano, e lo strato liscio di tranquillità e sicurezza che alla fine le ricoprirà sarà fittizio e irreale.

In definitiva, nonostante la prova, i sopravvissuti che cosa hanno imparato ? Sicuramente la loro superficialità è stata scalfita, ma da che cosa ? Dai sensi di colpa ? Il cinema di Boorman non è mai pacifico e risolutivo, ci lascia di fronte a delle questioni problematiche e a volte assai inquietanti.

Paul Zilio
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

martedì 15 febbraio 2011

REPULSION - 3 febbraio 2011

Regia: Roman Polanski

Gran Bretagna, 1965, b/n

Durata: 104’

Interpreti: Catherine Deneuve, Yvonne Furneaux, John Fraser, Ian Hendry, Patrick Wymark.

Carol, una giovane e psicotica manicure di origine belga, ma in trasferta a Londra, vive con estremo disagio la propria condizione di donna. La paura nei confronti del genere maschile, che sfocia in una vera e propria sessuofobia, la condurrà oltre le soglie della follia. Male incoglierà agli uomini che avranno la (disav)ventura di incontrarla.

Esse est percipi. Essere è essere percepiti. Parafrasando, estendendo e rielaborando l’assunto di George Berkeley, è possibile giungere al cuore dell’enigma della (nostra) visione. Esistiamo non solo come soggetti percipienti, in grado di pro-porre il mondo – vale a dire, ponendocelo innanzi come oggetto del nostro conoscere – ma anche come enti percepiti. Promiscuità di volti, corpi, sguardi, in cui i vettori comunicativi si moltiplicano, manifestandosi come reciprocità. Nessun punto di osservazione (nessun occhio) può costituire un luogo privilegiato dal quale vedere e giudicare la realtà e gli individui che la abitano, per il semplice fatto che, laddove si moltiplicano all’infinito i centri, non ne esiste più alcuno. Ogni vivente, ciascun angolo del globo non sono altro che le periferie di un mondo a-centrato.

Nello specifico, Repulsion potrebbe essere letto come la storia di una percezione mancata o continuamente rinviata fino a pervertirsi in sensazione distorta, allucinatoria. Si tratta di una mancanza di volontà o di capacità della protagonista di rapportarsi, percettivamente appunto, all’ambiente circostante fino a giungere al capovolgimento paranoico della sua relazione con l’esterno, che la conduce ad ingigantire le sue ossessioni fino ad arrivare a non essere più in grado di distinguere la realtà dalle contorsioni operate dalla sua psiche, che si traducono in abbagli visionari ed oscure farneticazioni. Di fatto, Carol nega la sua appartenenza al mondo, il suo esserne parte, sia come essere umano in generale (un rapporto comunicativo ed esistenziale vissuto attivamente la lega esclusivamente ed in modo morboso alla sorella Helen, mentre, nei confronti di tutte le altre persone, che incontra o frequenta, il suo atteggiamento, nel migliore dei casi, è di sostanziale ed apatica passività), sia soprattutto come donna (verso tutti i personaggi maschili che costellano il film, il suo comportamento è conflittuale, marcato dal rifiuto, dal terrore, dalla repulsione, appunto).

A partire dallo svuotamento del (mondo attraverso quello del) proprio sguardo – opaco, vuoto, impermeabile alle sollecitazioni dell’ambiente – la giovane manicure belga procede, lungo il suo progressivo cammino verso l’alienazione, a tutta una serie di forme di esclusione, di eliminazione, più o meno radicali, delle fonti percettive che la ossessionano (visive in primis, ma anche uditive e tattili). Dapprima, attraverso il suo ritirarsi in quel luogo per lei claustrale (ma che diventa però claustrofobico), che è l’appartamento dove abita, Carol cerca di porre fra sé ed il mondo esterno la barriera costituita dai muri, dalle finestre (che verranno chiuse ed “accecate” attraverso le tende) e dalla porta d’ingresso; barriere assai fragili, invero, visto che vengono di continuo violate dai suoni e dai rumori provenienti dall’esterno, dai misteriosi assalitori che popolano le sue notti insonni, nonché dai due individui che Carol, nel convulso finale, uccide. Implacabile ed inevitabile assedio del quotidiano e della vita, con tutta la loro carica di aggressività ed invasività, ma anche, forse, l’incedere della frantumazione dell’Io, attraverso la distorsione sistematica della realtà, l’allucinazione, l’incubo. Successivamente, ella procederà ad ulteriori recisioni, su cui spicca quella – fortemente simbolica – del filo del telefono, veicolo di tutte quelle voci senza volto che cercano di mettersi in contatto con lei (il corteggiatore), la rimproverano (il padrone di casa) o la insultano (la moglie dell’amante della sorella che la scambia per quest’ultima). Infine, l’ultimo decisivo e terribile sforzo da lei compiuto per trovare la pace consisterà nell’eliminazione fisica del suo (castissimo peraltro) spasimante, nonché del laido padrone di casa, venuto a reclamare l’affitto. Inane, vuoto ed estremo gesto di una persona fragile come il cristallo e tormentata, che tenta disperatamente di diventare l’ultimo essere umano della terra.

Giangiacomo Petrone

Arsenale Rosebud

giovedì 10 febbraio 2011

IL GIORNO DEGLI ZOMBI

IL GIORNO DEGLI ZOMBI (Tit. or.: DAY OF THE DEAD)

Regia: George A. Romero

Usa, 1985, colore

Durata: 102’

Cast: Lori Cardille, Terry Alexander, Joseph Pilato, Richard Liberty, Jarlath Conroy, Antone Di Leo.

Nel terzo capitolo della saga romeriana, la terra è ormai preda dei morti viventi. Asserragliato in un bunker sotterraneo, resiste un residuo di umanità. Al di fuori, ovunque, i “ritornanti”. Alcuni scienziati, sotto la guida del dottor Logan (Liberty), studiano le cause del contagio e ricercano affannosamente delle contromisure, mentre un manipolo di militari controlla l’avamposto, procurando le “cavie” per gli esperimenti. Il potere della conoscenza e quello delle armi, cioè della forza bruta, non tarderanno a scontrarsi.

L’inferno è per i vivi, la terra è per i (non)morti. Abitanti di un sottosuolo, tanto metaforico quanto fattuale, i superstiti di un’umanità stanca ed alla deriva sono costretti ad auto-recludersi per sopravvivere e, magari, per illudersi che lì fuori ci possa essere ancora qualcuno in grado di venire in loro soccorso.

Nel primo capitolo della serie, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), il contagio era solo all’inizio, ma l’incapacità degli uomini di unirsi per fronteggiare la minaccia e di capirne la portata apriva le porte della tragedia, dell’inferno, appunto. Dawn of the Dead (Zombi, 1978) non fa altro che estendere l’intensità del pessimismo romeriano: il contagio si va diffondendo, irreversibilmente ormai, su tutto l’orbe terracqueo. I sopravvissuti sono in numero sempre più esiguo e sempre più isolati, anche perché mossi da motivazioni unilaterali ed egoistiche. In questi due primi capitoli, gruppi armati di vigilantes, o anche di militari istituzionalmente legittimati, anziché tutelare la comunità e proteggerla, agiscono spesso per conto proprio, mossi perlopiù da ideologia, paura, razzismo e talora da biechi scopi personali, ma anche, semplicemente, dal piacere di sparare a dei bersagli. Sovente, non riescono ad emendarsi neppure quei personaggi che potrebbero mantenere viva una pur flebile occasione di riscatto per l’umanità.

In Day of the Dead, rimangono a fronteggiarsi i rappresentanti di due istanze apparentemente remote: quella scientifica e quella militare, ma in realtà accomunate dalla stessa smodata ambizione di controllo, quindi di potere. Il dottor Logan – chiamato lucidamente “Frankenstein” dai soldati, che ne disprezzano l’intelligenza e le attività – utilizza uno zombi-cavia, Bub, particolarmente ricettivo, per tentare di verificare se sia possibile istituire un dialogo, o perlomeno un rapporto padrone-servo/padrone-animale, con i revenants. Per farlo, utilizza l’esca della “ricompensa”. Se Bub reagirà positivamente agli stimoli, riceverà una razione della tanto agognata carne umana fresca, a cui anela ogni zombi che si rispetti. Per la bisogna, Logan impiega i resti, opportunamente surgelati, dei soldati morti, ma non ancora passati sull’”altra sponda”. Le altre sue attività si concentrano invece perlopiù nello studio delle reazioni fisiologiche e nervose di corpi di zombi, interi o sezionati, sottoposti a stimolazioni elettroniche (come, appunto, faceva il novello Prometeo Victor Frankenstein). Nonostante i metodi poco ortodossi e quantomeno macabri, Logan sembra raggiungere qualche apprezzabile risultato. Dall’altra parte si colloca Rhodes (Pilato), il comandante del presidio militare, tanto arrogante e pronto a sacrificare gli altri, quanto codardo ed opportunista. L’unica legge che conosce è quella della forza e della violenza, che però delega ai suoi sottoposti, non essendo in grado di esercitarla in prima persona. Il suo maggiore segno di debolezza è rintracciabile, probabilmente, proprio nel suo girare perennemente appesantito da pistole, fucili, caricatori e vari ammennicoli bellici. Gli altri soldati, a parte il sensibile e debole Miguel (Di Leo), sono tutti della sua stessa risma. Sia la scienza che l’esercito cercano vanamente di fronteggiare una minaccia che nessun intelletto né alcuna arma possono sconfiggere, perché il morbo oscuro che si è diffuso alligna, probabilmente, nella natura malsana dell’uomo stesso e, forse, altro non è che la punizione di un dio. È John (Alexander), il pilota-filosofo di colore, a definire con molta saggezza ciò che sta accadendo, mentre dialoga con la coraggiosa Sarah (Cardille), di certo la mente più lucida all’interno del gruppo dei ricercatori scientifici: “Tu non potrai mai capire, così come gli uomini non hanno mai capito, perché le stelle sono là dove sono. Non è compito della specie umana penetrare il mistero della vita. Quello che stai facendo è una perdita di tempo e il tempo è tutto ciò che ci è rimasto […]. Noi siamo stati puniti dal Creatore. Ci ha lanciato una specie di maledizione, affinché potessimo vedere come è fatto l’inferno”.

Romero, di fatto, con la sua “esalogia” sugli zombi (o doppia trilogia, se si vuole, giacché un ventennio separa l’ultimo dei primi tre capitoli da quelli realizzati in anni recenti, a partire dal 2005: Land of the Dead, Diary of the Dead e Survival of the Dead) descrive, aggiornandola magistralmente ai tempi, la parabola discendente del sogno americano e conseguentemente di quello occidentale. È la società del “produci, consuma, crepa”, evocata da Giovanni Lindo Ferretti,[1] della militarizzazione delle città, delle ronde contro i reprobi della società, dell’idiozia dei mass media, che tentano grottescamente di spiegare e raccontare il fenomeno della “zombificazione” del mondo – quando ne sono essi stessi parte e, talora, causa – e di farne, contemporaneamente, uno spettacolo: la “morte in diretta” della civiltà.

Infine, non vi è poi molta differenza fra i vivi morenti ed i morti viventi, giacché sia gli uni che gli altri sono mossi da pulsioni più o meno innominabili. I primi dalla bramosia di potere, di possesso e consumo, nonché da quella di essere predatori (finendo peraltro spesso col diventare prede delle proprie prede), ludico passatempo, con reminiscenze hobbesiane (homo homini lupus), e forse l’espressione più lampante del potere, appunto: quello di vita e di morte sugli altri, con l’evidente e quasi comico paradosso di desiderare di uccidere chi è già morto. I secondi, a loro volta, sono animati dall’impulso irrefrenabile di divorare carne umana vivente (si badi bene: i revenants non si attaccano né si divorano tra loro e soprattutto non hanno alcun effettivo bisogno di nutrirsi, visto che sono morti, ma desiderano farlo, irresistibilmente) e di ripetere ottusamente (ma non è così, troppo spesso, anche per la controparte dei vivi?), meccanicamente, gesti ed azioni, che, per loro, sono reminiscenze dell’esistenza e della quotidianità precedenti. Gesti ed azioni svuotati, se mai ne avevano avuto uno, di ogni significato. Il fatto è che, forse, se è vero che i morti viventi regrediscono ad uno stadio animale o pre-umano, e quindi non possono subire un giudizio né una sanzione di portata morale, è anche vero, invece, che gli esseri umani, nel pieno possesso delle loro facoltà intellettive e raziocinanti, dovrebbero elevarsi dal rango di bestie. Sciaguratamente, in molti casi, così non è, specie in situazioni estreme. È probabile allora che non siano tanto gli zombi ad essere un grottesco simulacro dei viventi, ma questi ultimi a possedere in sé i semi, i germi di una zombificazione, veri e propri morti-vivi che camminano, in attesa di raggiungere il compimento del loro destino.

Gian Giacomo Petrone

Arsenale Rosebud



[1] Ex leader dell’ormai sciolto (ed a tratti redivivo con altro nome, un altro esempio di revenant) gruppo punk italico CCCP.