domenica 28 novembre 2010

Un condannato a morte è fuggito - 18 novembre


(Un Condamné à mort s’est échappé, noto anche col titolo: Le Vent souffle il veut).

Regia: Robert Bresson

Francia, 1956, b/n

Durata: 97’

Cast: François Leterrier, Roland Monod, Charles Le Clainche, Maurice Beerblock, Jean-Paul Delumeau

Francia occupata, 1943. Nella prigione di Montluc, a Lione, il tenente Fontaine, ufficiale della Resistenza prigioniero dei nazisti, prepara pazientemente e minuziosamente la propria fuga. La condanna a morte da parte della commissione di inchiesta, che indaga sul suo caso, non farà altro che accelerarne le mosse.

In quel vero e proprio sottogenere cinematografico costituito dai film “carcerari”, sovente compare la parola fuga, sia nel titolo originale, che in quello italiano: Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz, Don Siegel, 1979), 1997 - Fuga da New York (Escape from New York, John Carpenter, 1981), Fuga per la vittoria (Escape to Victory, John Huston, 1981), solo per citarne alcuni. Si tratta di un vocabolo che lascia aperto uno spiraglio di imponderabilità. L’impresa è in corso, in divenire, durante lo sviluppo della trama, e talora può anche non riuscire, come nel caso, ad esempio, di Fuga in Francia (Mario Soldati, 1948). A Bresson, tutto questo non interessa. Già nel titolo di questo suo lavoro è presente l’esito, lo scioglimento fausto dell’intreccio. Al regista francese preme il come del racconto, il linguaggio che lo dispiega e soprattutto la personalissima ricerca della verità cinematografica, che scandisce ogni sua pellicola.

Fin dall’incipit del film, è presente l’asciutta austerità, la nitida sintesi, nonché la straordinaria eloquenza di uno stile, che cerca incessantemente di raggiungere l’archetipo di un cinema puro, quindi vero, necessario ed assoluto. L’inquadratura fissa iniziale, un fermo immagine, mostra un’ala del carcere di Montluc: il muro e più oltre alcuni edifici, parte del corpo del complesso. In sovraimpressione, compare una scritta bianca, in corsivo – la calligrafia è quella di Bresson – che dichiara: “Questa storia è vera. La do così com’è, senza ornamenti.” L’inquadratura successiva mostra una lapide, incastonata nel muro della prigione, con un’incisione: “Qui, sotto l’occupazione tedesca, patirono diecimila persone, vittime dei nazisti. Settemila soccombettero.” La macchina da presa muove allora orizzontalmente, abbandonando la lapide, fino ad inquadrare un particolare del muro, percorso in ogni direzione da fenditure più o meno profonde. Iniziano a scorrere i titoli di testa, accompagnati dal Kyrie della Messa in do minore di Mozart. Già in questi pochi attimi, emerge prepotentemente l’essenzialità dello stile bressoniano, unita ad un magistrale lavoro sul tempo. Nell’inquadratura iniziale, si passa dal senza-tempo (non a caso, come detto, un fermo immagine, una sospensione del divenire) del penitenziario – una zona che è sia uno spazio determinato ed individuato, Bresson di rado bara con la realtà, sia il simbolo, l’universale della prigionia e quindi, da ultimo, proprio per questo, un luogo qualsiasi – all’altrove temporale, sempre-essente, dal quale l’autore ci scrive. Si procede poi col presente della targa commemorativa, nell’inquadratura seguente, e si viene proiettati, quindi, attraverso il particolare del muro del carcere, nel passato (che inizia ad immergerci, senza fretta, nella dimensione narrativa), per introdurre il quale, basta un lieve slittamento della cinepresa, senza stacchi di montaggio, dissolvenze od altro.

Anche la voce off del protagonista riveste un ruolo primario di determinazione temporale. Mentre, nel contesto del falso presente dell’azione, le voci dei personaggi, compresa quella di Fontaine, sono tutte “spazializzate”, attraverso un effetto di riverbero, una specie di eco sottile, dando l’impressione di cozzare con i confini di un ambiente chiuso, quella off è come purificata, decontestualizzata, assolutizzata, in quanto proveniente da una dimensione spazio-temporale non identificabile. Essa ha il compito di confliggere col (falso) presente degli avvenimenti narrati, riportando lo spettatore alla consapevolezza che tutto è già accaduto, compiuto, e che, quindi, tutte le azioni, scelte, svolte dell’intreccio ricadono sotto le categorie della necessità e della predestinazione. Le circostanze sembrano disporsi seguendo la casualità del quotidiano e le decisioni del protagonista, ma in realtà esse rientrano in un disegno, in una trama, che sono già stati tracciati.

Contestualmente al trattamento tecnico della voce di Fontaine, va notato come il lavoro di Bresson sul suono, in generale, sia onnipresente, maniacale, certosino e portatore di verità – nel senso di rispetto, apertura ed amore per la realtà – sia a livello espressivo, che a livello narrativo. Come, del resto, nella totalità della sua opera. Analizzare e comprendere tale lavoro significa giungere all’essenza, al significato profondo, di questo e degli altri film del regista transalpino.

Innanzitutto, la rifrazione sonora che, come detto, connota le voci dei personaggi, è molto più accentuata per quelle dei carcerieri, veri e propri padroni dello spazio, anche e soprattutto acustico, ed allo stesso tempo, imprigionate, proprio da tale spazio. Radicati nel luogo di cui sono custodi, i secondini è come se ne fossero parte integrante, ombre senza volto e senza identità, schiavi del loro unico ruolo. Inversamente, i detenuti, pur costretti in celle anguste e dai muri solidissimi – sempre inquadrate e descritte come brandelli di un territorio, che lo sguardo non è in grado di abbracciare compiutamente – riescono, proprio attraverso le pareti, a dialogare, grazie a leggeri tocchi e semplici codici di comunicazione.

Un altro conflitto acustico è innescato dalla contrapposizione fra i rumori della prigione e quelli provenienti dalla città. I primi sono gli spari – le esecuzioni dei condannati a morte – i passi pesanti degli aguzzini, lo scattare delle serrature delle celle, il clangore delle chiavi che i guardiani fanno scorrere sulle ringhiere delle scale, a ribadire il loro dominio sul luogo e sugli uomini che lo abitano forzatamente. Rumori di morte. Gli altri provengono da un altrove, così vicino, eppure così lontano, che rappresenta, invece, la vita. In particolare, il fischio del treno, che sembra richiamare Fontaine al suo compito: fuggire. Mano a mano che la via verso la libertà sarà più vicina, ancorché problematica ed irta di ostacoli, tale fischio, accompagnato dallo sferragliare dei vagoni sulle rotaie, si farà sempre più intenso e ricorrente. Il suono, ogni suono, ha quindi una duplice funzione nell’opera bressoniana: raccordare gli spazi parcellizzati delle immagini e costruire un superiore livello di senso, spesso simbolico, in grado di raccogliere ed unificare i frammenti visivi e di tendere ad un assoluto cinematografico capace di plasmare e di trascendere la materia visuale.

“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va” – come dice Gesù a Nicodemo nel passo evangelico a cui si ispira l’”altro” titolo del film, che richiama la ri-nascita del protagonista, attraverso la grazia divina – e Bresson ne ha portato il respiro, l’impercettibile sonorità.

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