L’angelo sterminatore (tit. or.: El angel exterminador)
Regia: Luis Buñuel
Messico, 1962, b/n
Durata: 95’
Cast: Silvia Pinal, Augusto Benedico, Enrique Rambal, Jacqueline Audere, Claudio Brook, José Bariera
Durante un ricevimento, un gruppo di facoltosi notabili messicani rimane misteriosamente intrappolato nel salone dove si svolge la festa. La costrizione, dovuta alla forzata prigionia, farà emergere il lato primordiale e ferino dei personaggi coinvolti, che si abbandoneranno, progressivamente, ad ogni sorta di abuso e licenziosa turpitudine.
Sognano di sognare (incubi) e di non riuscire a svegliarsi. Forse immaginano di essere svegli, quando in realtà dormono. O, chissà, forse sono le loro esistenze ad essere ancorate ad una dimensione di tenace ripetizione senza via di uscita. Proprio come gli incubi. I personaggi buñueliani si muovono sovente in questa zona di confine, dove non conta tanto l’indiscernibilità fra reale ed immaginario, quanto l’incedere di una quotidianità che ripete i meccanismi circolari del mondo onirico. È come se, paradossalmente, il sogno fosse la materia di cui è fatta la realtà, per capire la quale è necessario rivolgersi al suo doppio allucinato, immaginato, sognato appunto. La psicanalisi ed il surrealismo, di cui in un modo o nell’altro il regista aragonese è debitore, non fanno altro che indagare e rappresentare la realtà a partire dalle (impalpabili) coordinate tracciate dall’inconscio. E, visto che questo substrato originario, sommerso e spesso incontrollabile, è animato dalle pulsioni più oscure e selvagge, è, forse, proprio scavando nel cuore nero, negli abissi senza fondo dell’Es, che sarà possibile svelare, almeno in parte, l’essenza dell’umano.
Buñuel sembra osservare, curioso ed attento come uno scienziato, malizioso ed innocente, ad un tempo, come un ragazzino, i suoi personaggi muoversi come insetti sulla tela di un ragno – immagine che, peraltro, ricorrerà direttamente nel suo Cime tempestose (Abismos de pasión, 1953). Egli esprime quindi sia la sua fanciullesca passione per l’entomologia (che studierà anche, sia pure per poco, all’università), sia quella filosofica (di cui coronerà il percorso accademico, laureandosi nel 1924), sostenendo di essere “[…] interessato di più alla vita e alla letteratura degli insetti che alla loro anatomia, fisiologia e classificazione.” Inevitabile perciò il salto dagli insetti agli uomini, che egli tratta, però, proprio come se fossero mosche imprigionate in un recipiente di vetro.
Da questo punto di vista, L’angelo sterminatore è esemplare: un “esperimento” vero e proprio, ancora più esplicito di tutti gli altri lavori del regista, condotto su un gruppo estremamente selezionato di esseri umani – autorità, maggiorenti, esponenti delle classi più elevate, rappresentanti di quella che dovrebbe essere l’elite, il meglio della società – che, messi in una condizione di momentanea impotenza, quindi di prigionia ed assedio, regrediscono ad un animalesco e perverso stato di natura, pervasi dalle pulsioni più primordiali. Esattamente come accadrebbe a qualsiasi altro essere umano di qualsiasi ceto e cultura, se non in modo ancor più accentuato. Eros e Thanatos sono gli estremi, le cause dei tabù repressi e sedimentati nell’Es – sotto la vigilanza costante del Super-Io – nonché i motori che li innescano, in quanto propulsori di ogni pulsione. Quando l’uomo civile smarrisce la propria identità, dovendosi confrontare col proprio lato ancestrale e selvatico, essi tracimano, debordano, traboccano, travolgendo tutto ciò che incontrano al loro passaggio. Mentre intanto Buñuel se la ride, grazie al suo sguardo divertito, sospeso e ad un tempo impietoso. Lo sguardo del naturalista sorretto dalla vena ironica e grottesca del surrealista.
Giangiacomo Petrone
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
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