Il corridoio della paura
Regia: Samuel Fuller
Anno 1963, USA
Interpreti: Peter Breck, Costance Towres, Gene Evans, James Best
Trama: Un giornalista desideroso di vincere il Pulitzer simula di essere malato mentale per venire ricoverato in un manicomio e fare un reportage su un delitto insoluto. Tre malati ne sono stati testimoni: un ex soldato della guerra in Corea, uno studente nero vittima di razzismo che ora crede di essere un membro del Ku Klux Klan, e uno scienziato atomico.
Detective story e noir vengono maneggiati da Fuller come raramente si è visto. L’uso della voce fuori campo è già sintomatica di una dissociazione interiore irrimediabile. L’integrità del protagonista e del suo punto di vista è portata alla dissoluzione (cfr. Gli invasati), riprese e luci convergono ad accentuarne la progressiva anabasi e il senso di claustrofobia. E raramente si era vista così screditata la figura di giornalista nel cinema americano (con l’eccezione de L’asso nella manica di Wilder).
Dietro l’apparenza di una detective story, “Schock corridor” cela un’allarmante radiografia delle nevrosi americane. Nei personaggi dei tre testimoni Fuller proietta incubi e orrori della storia di quella nazione bicefala. Il delitto non è che una falsa pista. L’investigatore trova la verità, una verità che soddisfa la sua ambizione di gloria, ma perde se stesso. L’”esterno”, cioè la società, la collettività sana, che in questo film claustrofobico girato tutto in interni non è mai mostrato se non in tre brevi sequenze a colori, è raffigurato come un mondo non meno allucinante della struttura psichiatrica in cui la vicenda si svolge.
In effige al film la frase: “Whom God wishes to destroy, he first makes mad” (Colui che dio ha il proposito di distruggere, prima lo fa impazzire), da Euripide. Il richiamo alla tragedia non è spurio.
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