SUPERBIA
AGUIRRE, FURORE DI DIO (AGUIRRE, DER ZORN GOTTES)
Regia: Werner Herzog
Germania occidentale, 1972, colore
Cast: Klaus Kinski, Helena Rojo, Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling, Cecilia Rivera
Anno di grazia 1560. Una spedizione di conquistadores spagnoli, capeggiata da Gonzalo Pizarro, discende le Ande alla ricerca del mitico El Dorado. Una pattuglia esplorativa viene inviata in avanscoperta, lungo il fiume Urubamba. Il capo di questo manipolo, Pedro de Ursua, verrà ben presto spodestato dall’ambizioso e feroce Lope de Aguirre, che intende procedere libero da ogni legame istituzionale. Intanto, la foresta ed il grande fiume aspettano.
Ogni gesto espressivo e significante, cinematografico e non, notevole o meno, risente della tensione originaria dell’uomo verso un orizzonte di stabilità e permanenza, in grado di trascendere il suo destino di contingenza, di parzialità, di finitezza, consentendogli di sfiorare, in un modo o nell’altro, l’immortalità. La filosofia e le arti figurative nascono anche, forse soprattutto, dall’esigenza di fermare il tempus edax, il tempo divoratore, per individuare un principio, da un lato, o creare un manufatto, una forma od un’immagine del mondo, dall’altro, capaci di persistere durevolmente ai mortali assalti di Chronos. Con la nascita e lo sviluppo dell’arte della fotografia e poi con la capacità di riprodurre la realtà nel suo dinamismo, nella sua durata, attraverso l’immagine in movimento filmica, sembrano estendersi per l’uomo non solo la possibilità di bloccare il divenire ed esorcizzare la decadenza delle cose e la loro fine, ma anche l’illusione di accarezzare l’eterno. Oltre a ciò, l’opportunità di registrare tutto il visibile in immagini (fisse od in movimento) crea un’illusione ulteriore e forse ancor più vana: riuscire a carpire l’essenza del mondo in effigie e con ciò la sua verità più riposta ed assoluta. Sembra essere quindi proprio la superbia il peccato capitale del cinematografo, l’ambizione di poter somigliare a Dio o di possedere alcuni dei suoi attributi.
In questo contesto, risulterebbe sin troppo semplice individuare in Werner Herzog e nel suo cinema alcune delle espressioni più compiute ed estreme di tale peccato. In realtà, ne siamo, per molti versi, agli antipodi, sia per ciò che concerne il suo atteggiamento, che per quello dei suoi personaggi centrali nei riguardi della realtà. Non vi è mai, da parte del regista bavarese, la supponenza o l’arroganza di chi ritiene di possedere una conoscenza esaustiva del mondo o dei mezzi della propria arte: la sua opera risulta quindi tutt’altro che una pacifica(ta) e stanca ripetizione di stilemi, asserzioni, schemi, eventi, meccanismi narrativi. Ciò che anima il suo percorso è il proporsi interrogativo, esplorativo di chi si apre all’essere delle cose, alla sua durezza, opacità e distanza. La sua vera sfida concerne l’atto di filmare, quindi il filmabile, come possibilità estrema dello sguardo dell’uomo di posarsi sui limiti altrettanto estremi del mondo, senza accontentarsi dell’immediata comodità del visibile. Gli artifici della finzione cinematografica vengono centellinati, dosati con cura e pazienza e mai abusati, in funzione di un estremo rispetto per l’arte cinematografica, che riflette una corrispondente assoluta devozione per l’essere e la sua complessità. Ecco allora delinearsi un cinema dove le iperboli tecniche, narrative, espressive, gli espedienti spettacolari, gli effetti sono ridotti all’osso, o del tutto assenti, e nel quale il vero spettacolo è costituito dall’inquietante magia della natura e dalla forza di quegli uomini che in essa, per essa e contro di essa si ritrovano a lottare, non per soggiogarla – sogno intenso e profondo, ancorché vano – ma per realizzare, sia pure imperfettamente, la loro più profonda essenza.
Aguirre, furore di Dio si colloca del tutto in questo solco, sia per quanto riguarda la lavorazione del film[1], che per ciò che attiene al suo incedere narrativo, espressivo ed alle personalità e psicologie dei personaggi. La superficie del racconto ci parla di una spedizione di conquistadores, venuti nel Nuovo Mondo per impossessarsi di ricchezze, territori e poteri temporali ed a portare con sé la propria concezione culturale, storica, sociale, religiosa, in una parola il proprio logos. E questo forse vale, in misura maggiore o minore, per la maggioranza dei personaggi del film, ma non per le due donne che partecipano alla spedizione né, ovviamente, per i nativi – perlopiù ombre senza volto in agguato nel folto della giungla – né soprattutto per Lope de Aguirre (uno straordinario, eccessivo, magnetico, perverso Klaus Kinski). I maschi bianchi colonizzatori sono troppo legati ad un retaggio percettivo e conoscitivo distante da quello che pervade l’ambiente in cui si inoltrano, un luogo in cui, come dice un indigeno catturato: “Dio non è riuscito a finire la sua creazione”. Sono estranei in terra straniera ed Herzog li coglie spesso a guardare ottusamente la natura lussureggiante ed impervia che li circonda, senza realmente comprenderla. Assai diverso è il discorso per le due figure femminili e per il protagonista. La prima delle due, Inez, la moglie del capo iniziale della pattuglia, Ursua, segue con coraggio il marito e silente lo accompagna dopo che viene ferito per ordine di Aguirre. Tutto sembra per lei cagione di stupore ed angoscia, sia ciò che la circonda, sia la ferocia del branco maschile. Ciononostante, la sua decisione ed il suo coraggio non vengono mai meno. Dopo l’impiccagione del consorte, una volta che il piccolo drappello prenderà nuovamente terra, si inoltrerà nel profondo della foresta, dove scomparirà; rassegnata alla propria sorte non solo di vedova in mezzo ad una soldataglia bavosa, ma soprattutto di essere umano che comprende che l’unica via per affrontare la natura ed il proprio destino è addentrarvisi. Figura speculare risulta l’altra donna, la giovanissima Flores de Aguirre, figlia del protagonista. Anche lei segue il suo uomo di riferimento, perennemente muta e dallo sguardo innocente e purissimo, come se tutto fosse un gioco sublime e terribile, dove gli esseri umani si uccidono, o muoiono a causa della loro sventatezza, dove ciò che è meraviglioso è anche mortifero e letale, dove il padre amato arriva a concupirla come sommo e blasfemo oggetto del desiderio.
Infine, ecco Aguirre/Kinski. Sia il personaggio che l’attore[2] incarnano al meglio l’atteggiamento e l’inclinazione del regista bavarese verso l’estremo, l’assoluto. All’inizio del film lo vediamo compiere gli stessi gesti ed azioni dei suoi pari o dei suoi soldati, dare ordini, maltrattare gli schiavi al seguito e marciare. Sono i suoi occhi a dirci che lui non è come gli altri. Quegli occhi sono rivelatori non solo dei suoi foschi e folli disegni, ma si fanno anche vettore di uno sguardo che, mano a mano che la narrazione procede, si distanzierà totalmente da ogni forma di comunicatività, per immergersi sempre di più nella dimensione selvaggia di quella regione, spettrale e ricca di vita ad un tempo, in cui non vi è spazio per le sovrastrutture e gli schematismi dell’uomo civilizzato, ma solo per la visione allucinata di un poeta filosofo, di un poeta guerriero. Di fatto il film è il percorso formativo di questo sguardo, che diviene manifestazione decisiva di un approccio radicalmente conflittuale del protagonista, sia con il suo intero retaggio di soggetto civilizzato, sia con il suo presente di uomo gettato nel cuore nero della terra. Aguirre è l’unico della spedizione che comprende la necessità di abbandonare totalmente le certezze acquisite dalla e nella cultura – anzi di doverle combattere ed annientare – per potersi finalmente confrontare con la dimensione sublime e terribile della natura nella sua epifania più completa ed originaria. Tale confronto non potrà che essere violento, totale e destinato al fallimento, in quanto è tracciato nel fato dell’uomo di dover lottare dentro e contro l’essere per affermare se stesso – ma soprattutto per riconoscere, comprendere e custodire il suo rapporto con l’essere stesso – e che in tale lotta sono inscritti la sconfitta, l’annientamento, la follia e la morte. Proprio in questo destino, però, è possibile individuare la vera grandezza dell’uomo ed il compimento ultimo della sua essenza: solo abbandonando le sue fragili sicurezze e la dimensione quietamente (ad)domestica(ta) del quotidiano, egli potrà finalmente addentrarsi nell’ignoto spazio profondo, nella dimensione a-temporale dell’attesa e della ricerca incessanti, quindi riappropriarsi della propria origine, che è anche il suo fine ultimo. Ecco che allora è anche possibile comprendere lo strettissimo rapporto, la corrispondenza, fra Herzog ed i suoi personaggi: veri e propri apolidi in un mondo ed una società nei quali stentano a riconoscersi ed aperti, protesi verso l’assoluto, lo sconfinato, lo smisurato, vale a dire ciò che atterrisce e sgomenta l’uomo e per ciò stesso lo attrae irresistibilmente.
Gian Giacomo Petrone
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
[1] A tal proposito, è sufficiente ricordare alcuni aneddoti ed episodi accaduti durante tale lavorazione: il fatto che Herzog abbia minacciato con un fucile Kinski, che voleva abbandonare il set, che le zattere utilizzate siano state costruite sul set stesso e, soprattutto, che le riprese siano state realizzate seguendo pedissequamente l’incedere cronologico del racconto – caso quanto mai raro al cinema.
[2] Kinski è l’attore per eccellenza di Herzog, così come quest’ultimo è il suo regista prediletto, due affezionatissimi “nemici”, per parafrasare un altro titolo noto del cineasta tedesco.
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