COSMOPOLIS
Regia: David Cronenberg
Canada/Francia/Italia/Portogallo, 2012, colore
Cast: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon,
Mathieu Amalric, Jay Baruchel, Kevin Durand, Paul Giamatti
Per andare dal suo barbiere di fiducia, il giovane miliardario
Eric Packer è costretto ad attraversare, all’interno della sua limousine, una
Manhattan in rivolta, mentre l’intera città di New York è paralizzata per
l’arrivo del presidente statunitense e per il funerale di una star musicale
afroamericana. Molti bizzarri incontri ed uno strano destino lo attendono.
Girato prevalentemente a Toronto, Cosmopolis non vuole essere una
ricostruzione storica né tantomeno ambientale delle cause della crisi economica
che, ancora oggi, attraversa l’intero pianeta. Tanto più che il romanzo di Don
DeLillo, da cui il film è tratto, viene pubblicato nel 2003 e risulta
ambientato nel 2000, quindi molto prima che la crisi stessa, almeno così come
ci viene raccontata dai media, abbia inizio. Lo spazio metropolitano, lungi dal
risultare mera ricostruzione documentaria della Grande Mela, diviene, nel film,
spazio qualsiasi, privo di qualunque
connotato o riferimento riconoscibile. La vicenda narrata assume, almeno in
superficie, le strutture e le dinamiche di una folle allegoria del potere
finanziario contemporaneo, al di là, lo si è detto, di qualsiasi individuazione
spazio-temporale precisa. I diagrammi, gli schemi ed i numeri, che si
affacciano dagli schermi dei computer installati nella limousine di Eric, sono
però l’unico effettivo contatto con l’evanescente mondo della finanza, oltre a
molti dei deliranti dialoghi che punteggiano l’opera. La limo appare come un’automobile-santuario
che custodisce (e protegge, essendo blindata ed insonorizzata) i feticci ed i
simulacri di un mondo astratto, freddo, opaco e distante – ancorché letale per
l’uomo – insieme ad uno dei loro sacerdoti. È all’interno di essa che si svolge
gran parte della vicenda narrata. La crisi c’è, ma non si vede e la sua essenza
forse si colloca nella sua assenza.
Al limite essa viene psicoticamente verbalizzata ed evocata dai personaggi che
transitano attraverso l’immensa automobile di Eric: una cattedrale, un
confessionale o, per certi versi, lo studio di uno psicanalista. È attraverso
questa verbalizzazione dell’assente che prende forma l’effettiva distanza esistenziale, oltre che fattuale, fra
l’uomo e l’astratto, ottuso universo finanziario. Più che un film sulla crisi
economica, Cosmopolis è, in realtà,
un’opera sulla crisi d’identità e sulle aberrazioni psichiche che
caratterizzano gli uomini di potere della nostra epoca.
L’ossessione di controllo che pervade Eric
ed i suoi collaboratori (esperti informatici e di matematica finanziaria,
“filosofi monetari” oltre alle sue guardie del corpo) trova un ostacolo insormontabile
nell’impenetrabilità ed imprevedibilità del reale e degli eventi che vi
accadono. Se la realtà concreta è permeata da tale imponderabilità,
altrettanto, se non di più, lo è la realtà virtuale dei numeri e degli astrusi
calcoli probabilistici, statistici e delle ermetiche equazioni che regolano i flussi ed i mercati
finanziari. Eric, i suoi sottoposti ed il suo impero vedono sgretolarsi le
proprie fondamenta per non aver saputo prevedere l’andamento sul mercato dello
yuan cinese. Ogni possibilità di calcolo e di conseguente controllo del mondo
si è inceppata di fronte alle variabili impazzite di un universo solo
apparentemente regolare ed ordinato come quello matematico. L’Io di Eric e
degli altri personaggi che gli ruotano attorno, così come le loro identità, vengono
perciò a frantumarsi ed a frammentarsi per non aver saputo reggere il peso
dell’evanescenza dei loro saperi, delle loro concezioni del mondo e delle loro
friabili certezze. Ecco perché l’intero film può essere letto come
un’ipertrofica seduta psicanalitica dei personaggi presso il guru Eric, ma
anche di quest’ultimo presso quell’attento ed a tratti beffardo osservatore
entomologico che è il regista stesso: David Cronenberg.
Il viaggio attraverso la metropoli diviene
quindi un percorso regressivo che tocca tutti i personaggi della corte del sovrano Eric, impegnati a
riscoprire la loro fase orale (li vediamo sovente impegnati a suggere cannucce,
sgranocchiare noccioline, trangugiare bevande) ed il linguaggio, che nel loro
caso è, come nell’infanzia, carico di significati mitici e ludici. I monitor
dei computer – con i loro arabeschi digitali – ed il loro mondo di riferimento,
costruito su un incorporeo controllo a distanza che identifica denaro, potere,
frenetica e meccanica ambizione altro non sono che uno smisurato campo da
gioco, evocato attraverso un vero e proprio gergo semi-esoterico per iniziati,
esattamente come accade in quelle gang giovanili, dove si gioca, appunto, a
fare gli adulti.
Ancora più complesso risulta il percorso di
(ri)scoperta e ridefinizione del sé da parte di Eric. Tale personaggio,
definito somaticamente dai tratti anodini di Robert Pattinson, appare fin da
subito come un essere alieno in un ambiente similmente alieno (grattacieli e
palazzi anonimi accanto alle altrettanto anonime limousine in fila e tutte
uguali) e disumanizzato, perciò perfettamente organico ad esso. L’ostinato
viaggio verso il salone di barbiere della sua infanzia, dall’altra parte della
città, non è altro che l’indizio più immediato, fra i molti che punteggiano il
film, della vera e propria patologia che interessa il protagonista: il Disturbo
Ossessivo-Compulsivo, che si esplica come la ripetizione rituale, maniacale e
meccanica di azioni, che hanno lo scopo sia di esprimere il proprio controllo sul
mondo, per ristabilirne un ordine che si paventa come perennemente compromesso,
sia in definitiva di esorcizzare l’imprevedibilità e l’ostilità del reale. Cosmopolis, per molti versi, può essere
a tal proposito definito come un torbido trip
dal razionale all’irrazionale o dalla com-pulsione alla (riscoperta della)
pulsione attraverso una serie di tappe, che gradualmente portano il
protagonista a liberarsi delle proprie ossessioni per riabbracciare, almeno fin
dove gli riesce, la dimensione originaria e libera del caos, l’urgenza di
esperire la propria corporeità attraverso il piacere, il dolore e, magari, la
morte. L’obiettivo ultimo, probabilmente inconsapevole, di Eric è quello di
fronteggiare l’irrazionalità del reale attraverso una altrettanto prepotente
riaffermazione folle del Sé, o meglio del proprio Es.
Due vie parallele possono essere
determinate, nel corso del film, per individuare questo percorso di mutazione
psicofisica. La prima può essere identificata come il passaggio dai segni dell’ordine ai segni del
disordine. Tutta la vita di Eric è scandita, fino allo svolgersi degli
eventi narrati nel film, dal controllo maniacale di ogni fase ed aspetto, sia
pubblico che privato, della sua giornata. Il suo stile è impeccabilmente
elegante ed asettico, così come il suo viso ed il suo taglio di capelli e non a caso il racconto
inizia in medias res, proprio mentre
egli sta per recarsi dal suo barbiere. Quotidianamente, si sottopone ad un
check-up completo per monitorare lo stato della sua salute. In ogni suo
spostamento viene seguito da un complesso apparato di security, che egli,
controllato da esso, a sua volta controlla (fino all’indistinguibilità del
controllore e del controllato). Eric pare inoltre minacciato da un oscuro
individuo, che vuole la sua morte: ecco anche perché le maglie delle difese
approntate dalle guardie del corpo risultano estremamente spesse. La gran parte
della sua frenetica esistenza è comunque soprattutto dedicata all’ispezione
certosina dell’andamento del suo dominio finanziario tramite i computer.
L’elemento che, probabilmente, innesca la mutazione di Eric è la caduta
vertiginosa del suo impero, per non essere stato in grado, come accennato, di
prevedere i flussi dello yuan. Ecco allora cominciare la proliferazione dei segni del disordine. Dapprima egli
comincia a smarrire alcuni oggetti-chiave del suo look: occhiali da sole,
giacca, cravatta; poi è la volta della sua limousine, che viene a più riprese
lordata dai manifestanti che riempiono le strade; successivamente è il suo
faccino indolente e viziato a subire l’oltraggio di una torta in faccia da
parte di un manifestante particolarmente fantasioso; infine è egli stesso a
contribuire al prevalere del caos, quando uccide il capo della sua sicurezza e
poi quando, una volta dal barbiere, interrompe la seduta, uscendo col taglio
incompleto. Da questo punto in poi, Eric manifesta apertamente quella che Freud
indicherebbe come pulsione di morte.
Tale atteggiamento da cupio dissolvi
crea però un cortocircuito nella definizione del personaggio, che appare,
paradossalmente e per la prima volta, libero e vivo, anche se pur sempre in una deriva mentale ormai irreversibile.
L’altra via per comprendere la mutazione
psicofisica di Eric è, invece, di matrice più strettamente psicanalitica. La
vita ossessivamente programmata ed ordinata del protagonista mostra dei segni
di squilibrio là dove cominciano ad affacciarsi dei segni di regressione
psichica e di predominio della pulsione. L’intrecciarsi ed il sovrapporsi
confuso delle tre fasi formative originarie dell’Io nell’infanzia, orale,
anale, fallica conducono Eric a liberarsi progressivamente dei suoi legami
istituzionali da adulto, per condurlo
verso un’orgia di sensazioni, progressivamente più estreme, che sembrano
risvegliarlo dal suo meccanico torpore per condurlo però ad una dimensione di
totale ed allucinato spaesamento. Anch’egli, come gli altri personaggi, trae
diletto dall’oralità (sugge, beve, sgranocchia ed ha sempre fame) e soprattutto
risulta erotizzato dal proprio logos,
dal piacere di agitare la lingua per farne uscire suoni armoniosi, estremamente
selezionati e dal significato suggestivo, appare inebriato dal gusto di parlare
e di ascoltarsi, in una dimensione in cui la parola non ha ancora raggiunto la
maturità del dia-logos, ma appare
ancora fortemente ancorata alle sue possibilità evocative ed ipnotiche. L’esame
prostatico, durante il suo check-up giornaliero, rivela invece, da parte di
Eric, l’espressione di una libido legata
anche all’analità, oltre a fargli scoprire l’asimmetricità della sua prostata
(elemento decisivo che riassume in sé molti dei significati del film). Infine, gli
svariati rapporti sessuali avuti, da parte del protagonista nel corso della
giornata[1],
con donne di varie forme ed età, evidenziano una fallocentricità, nella quale non
c’è posto per un’autentica reciprocità fra persone vive, ma in cui, invece,
Eric si percepisce come soggetto assoluto, esattamente come accade nella
corrispondente fase psicosessuale freudiana.
L’ultimo tassello per completare il
complesso quadro si situa nella ricerca, da parte del protagonista, dell’uomo
che lo minaccia, che altri non è che un suo ex sottoposto, ormai licenziato ed
ai margini della società, che si fa chiamare Benno Levin. Forse,
inconsciamente, Eric è da quest’ultimo che, fin dall’inizio, sente l’urgenza di
andare. Una volta abbandonato il salone del barbiere, egli vaga per il vecchio
e solitario quartiere fino a quando non vengono esplosi dei colpi di pistola
nella sua direzione: è Benno ed Eric intuisce che è giunto il momento di
confrontarsi con lui. Sale fino al fatiscente appartamento di quest’ultimo per
incontrarlo e, magari, per cominciare a capire. Ciò a cui si assiste nella
sequenza finale, vale a dire il “duello” fra Eric e Benno, altro non è che una
bizzarra rappresentazione della fase
dello specchio freudiana[2].
Eric si trova di fronte ad un’immagine fortemente deformata di sé: Benno (uno
straordinario Paul Giamatti), invecchiato, brutto, sporco, incattivito, ma
soprattutto vivo. Anch’egli ha, come
Eric, la prostata asimmetrica ed anch’egli, per molto tempo, ha creduto nei
numeri, nella loro assolutezza e regolarità. Ora, però, ha smesso di credere e
si è rassegnato all’asimmetria del
reale, alla sua irregolarità, come un destino ineluttabile. Forse vorrebbe solo
che qualcuno lo ascoltasse per capire. È come se Benno, novello ritratto di
Dorian Gray, avesse per molto tempo accumulato tutto lo squallore, la
turpitudine, la bruttezza e l’abbrutimento del suo capo per preservarlo e
mantenerlo integro e perfetto, caricandosi anche del fardello della vita di
Eric e del peso della sua coscienza. Ed è come se, fino ad allora, Eric non
avesse realmente vissuto, delegando inconsciamente a Benno di subire gli
oltraggi del tempo e di un’esistenza dissipata, frenetica e folle. Ora, forse,
Eric si trova in quella stanza cadente per recuperare, tutto in una volta, il
tempo perduto e la consapevolezza, ma, si sa, il tempo è una pistola puntata
alla testa…
Gian Giacomo Petrone
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
[1] Il racconto rispetta l’unità
spazio-temporale aristotelica della tragedia, pur avendo le caratteristiche di
una narrazione (anti)epica, in cui il viaggio, anziché essere radicalmente
formativo e portatore di conoscenza ed esperienza di sé, non è altro che
l’espressione della dissoluzione del soggetto protagonista.
[2] Secondo Freud, il momento
originario dell’infanzia in cui il piccolo d’uomo inizia ad assumere coscienza
della propria soggettività e della
propria identità si situa, appunto, nella “fase dello specchio”, cioè quando il
bambino si ritrova di fronte ad una superficie riflettente, insieme ad un
adulto, e riconosce, nell’immagine
riflessa, se stesso.
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