Il Grande Lebowski (The Big Lebowski)
Regia, sceneggiatura, montaggio: Joel e Ethan Coen
Interpreti: Jeff Bridges, John Goodman, Julianne Moore, Steve Buscemi, David Huddleston, John Turturro, Ben Gazzara, Philip Seymour Hoffman, Tara Reid, Peter Stormare, Sam Elliott
USA-GB, 1997, durata 117 min., colore
Jeffrey Lebowski detto Drugo (Dude nell’originale), vecchio ragazzo degli anni ’70, uno degli estensori del manifesto di Port Huson che diede origine alle contestazioni studentesche (ma “della prima versione, quella più dura”), disoccupato, pacifista, dedito al bowling, alle amicizie e alla marijuana, viene scambiato da dei teppisti per un famoso miliardario suo omonimo. Nel tentativo di chiarire l’equivoco si trova coinvolto in un’intricata quanto sconclusionata vicenda di rapimento di cui, in qualche astrusa maniera, verrà a capo.
Rielaborazione dei fratelli Coen di un classico del noir come Il grande sonno di Howard Hawks infarcita di intelligenti sconfinamenti surreali nei generi più disparati, dal western al musical alla Busby Berkeley, senza tradire l’originaria, intima natura del Marlowe chandleriano, la sua malinconica, rassegnata ma dignitosa accettazione della propria marginalità e la coscienza morale di essere dalla parte giusta. La figura del protagonista risalta su una galleria di personaggi che, ciascuno nella propria specifica tipicità, sono lo specchio di un mondo che ha perduto qualsiasi senso e che tuttavia abbiamo voluto così: l’ottuso reduce del Vietnam (Goodman), il miliardario arricchitosi a suon di espedienti, falso e trombone (Huddlestone) con tanto di moglie giovane, fedifraga e siliconata (Reid), lo yes-man viscido e servile (Hoffman), il giocatore di bowling maniaco e pervertito (Turturro), il regista porno (Gazzara), il bandito nichilista (Stormare), l’artista vaginale (Moore), il poliziotto neo-nazista.
È così che Dude il pigro (“il più pigro di Los Angeles, il ché lo colloca di fatto fra i più pigri al mondo”) trova una mai invocata, cinica redenzione: grazie a quel distacco dal mondo, a quello stupore tranquillo che solo un’accidia strenuamente difesa permette elevandosi a paradigma della sopravvivenza.
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud |
Renato Carlassara |
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