venerdì 28 novembre 2008

Cineforum 2008/09


REMAKE-REMODEL

Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane continueremo a narrarle, trasformate”

(Jorge Louis Borges)

Introduzione

Il cinema è duplicazione, in quanto copia, e rappresenta la realtà. Quale realtà? Una realtà pre-vista che si conforma a un’idea, un progetto, un’immagine. La pre-visione prende sempre spunto da ciò che la realtà ci mostra. Rifare quindi la realtà pre-vede la realtà stessa in quanto mitologicamente archètipo-modello. Senza una interpretazione di realtà non ci sarebbero, ovviamente, la finzione, l’immaginazione, la ripetizione “di ciò che è come così ci appare”.

C’è sempre una volontà di riferimento all’originale o autentica, emozionata visione e non trovando una forma di rappresentazione, copiamo o citiamo qualcosa di già preesistente: infatti il “Nosferatu” di Herzog con la maschera Kinski non avrebbe senso senza il suo archetipo (il “Nosferatu” di Murnau con l’attore Max Schreck).

I film si rifanno e si disfano continuamente come la tela di Penelope. Remake quindi, da intendersi anche come maquillage, parodia, trucco e caricatura. Rimodellare degli stereotipi o smontarli, trasformati mitologicamente sempre in qualcosa di attuale e perciò anche di particolarmente familiare.

L’occasione del remake è un pretesto per rappresentare, in nuova forma, una storia, un racconto che, con i dovuti ritocchi, funziona ancora.

Il cinema hollywoodiano iperindustrializzato ha capito e capisce benissimo come produrre in serie delle sceneggiature che strutturalmente si ripetono, in alcune parti, in modo sistematico; all’interno di questa dimensione, basta ritoccare alcuni effetti periferici o secondari per raggiungere una gamma infinita di variabili che nascondono o mascherano la stessa identica idea. Certo, all’interno di questi processi esiste e viene prodotto, da veri autori, dell’ottimo cinema, ma il processo rimane quello, fondamentalmente (vedi il rapporto per molte sceneggiature tra il cinema di Hong Kong e quello più recente hollywoodiano: Tarantino e Scorsese per intenderci).

Etimologie ed analisi

Il termine inglese remake (rifacimento,riedizione) ha la stessa radice verbale di make-up (trucco, effetto, maquillage).

Nei luccichii sfavillanti di un cinema segnato dal trionfo del trucco e dell’effetto speciale, il remake costituisce in fondo il make-up per eccellenza, la prestidigitazione più stupefacente e mirabolante: quella che cela il nuovo sotto i panni del vecchio, fa scaturire l’inedito dal già noto, fonda la propria autonomia (originalità, diversità) fingendo di annullarsi nel rifacimento del già stato. Culto o riciclaggio? Né l’uno né l’altro. Semplicemente è un’altra cosa, perché è un cinema in mutazione, che sperimenta sul corpo di ciò che è stato, le sue possibilità di essere nel futuro (avete presente “Back to the future”- “Ritorno al futuro”?).

La storia del cinema e anche della letteratura ci insegnano che un remake è tanto più efficace non quanto più si avvicina al modello, bensì quanto più lo trasgredisce oppure quanto più lo ripropone identico, svelando nel medesimo la presenza dell’altro. (vedi la versione filologica diPsycho” di Gus Van Sant).

"Si riproduce, si restaura tutto, e il pubblico quanto mai consenziente ha bisogno di ritrovarsi, come spettatore, in famiglia."

Per non concludere

Esiste un cinema autentico? Originale e irripetibile? No, modelli inattingibili non ne esistono, non esiste un cinema modello e perfetto, piuttosto la sua “ripresa” è solo la copia corrotta, imperfetta e degradata. Forse non ha più senso discutere, in epoca post-benjaminiana°, in termini di copia e di originale: il remake spesso si pone in modo sovversivo e irrispettoso inventando nuovi linguaggi, oppure può trasformarsi in qualcosa di molliccio e zuccheroso che incolla lo spettatore trasmettendo un perverso tepore familiare.

Le coordinate teoriche entro cui misurare correttamente la fenomenologia del remake ci sembrano proprio queste: quella della trasgressione innovativa sul piano del linguaggio e quella della riproduzione di un meccanismo invadente che usa i buoni sentimenti per ricreare la dimensione del familiare, della riappacificazione, del già noto.

vedi "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di W. Benjamin.

Paul Zilio - gruppo cinema ARSENALE ROSEBUD

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