giovedì 23 dicembre 2010

La città incantata - 23 dicembre 2010

La città incantata (, Sen to Chihiro no kamikakushi?)

Regia: Hayao Miyazaki

Giappone, 2001 durata: 123 minuti, colore.

La città incantata (千と千尋の神隠し, Sen to Chihiro no kamikakushi?) è un film d'animazione giapponese. Realizzato con un budget elevato (1.900.000.000 ¥, circa 16 milioni di €), il film presenta l'altissima qualità tecnica consueta dello Studio Ghibli, ed ha vinto numerosi e prestigiosi premi. Sembra una favola, ma ritengo troppo riduttivo considerarla tale. In realtà al suo interno fa emergere un materiale mitologico e folklorico assai complesso e intricato. In questo senso partendo dai presupposti della cosiddetta teoria antropologica di Propp, che dichiara come ci sia un rapporto costante tra i motivi in questione e gli “istituti sociali” (il regime sociale), all’interno del quale i motivi sono stati creati; si prendono in considerazione il fenomeno della trasformazione e della trasmissione dei motivi giungendo a focalizzare la libertà della creazione di ciascun narratore al momento in cui, nell’alternarsi delle culture, ogni motivo non risulta più connesso con istituti sociali ancora in vita. Dal momento in cui si perdono questi contatti, diventa però sempre più difficile dare significati a un materiale che ci risulta sempre meno comprensibile. Infatti nell’intricatissima esperienza di Chihiro emergono delle connessioni archetipiche profonde che inevitabilmente ci toccano in modo vago e perturbante. Non possiamo non confessare come questo mondo ci trasporti letteralmente in una dimensione altra in cui siamo circondati (assediati) da esseri e fantasmi. Il mondo adulto come i genitori di Chihiro ha perso i contatti definitivamente con questa realtà, come nella tematica del fanciullino pascoliano; la nostra sensibilità tutta concretezza e contabilità si è indurita. I genitori così vengono trasformati in maiali e alla fine della storia non si ricorderanno nulla di quello che è accaduto. Paradossalmente i veri bambini sono loro piuttosto della figlia che si prende la responsabilità di salvarli. Assedio quindi da parte di una città incantata che mette a dura prova Chihiro facendola crescere ed assimilare una sorta di saggezza delle “tradizioni” all’interno di una foresta di simboli e archetipi che dal profondo come da una sorgente danno vita ad una superficie d’incanti e magie.

Il film è liberamente ispirato al romanzo "Il meraviglioso paese oltre la nebbia" della scrittrice Kashiwaba Sachiko. È una lunga e delicata favola sulla semplicità d'animo, il coraggio, l'amicizia, l'amore, ma soprattutto la forza dell'altruismo. Tecnicamente molto curato, sia a livello di scenografie, disegni, movimento ed espressioni facciali, che a livello di dialoghi, è ricco di accorti particolari che lo rendono umano e vivo.La bambina protagonista non è dotata di superpoteri, né di doti fisiche fuori dal comune, ma più umanamente di forza di volontà e bontà spontanea e semplice. Il suo viaggio nella città incantata di certo si apprezza maggiormente potendo cogliere gli infiniti riferimenti alla vasta cultura giapponese (spiriti e dei in primo luogo), ma non è meno significativo o toccante anche per uno spettatore occidentale.

In Italia è approdato nell'aprile 2003, due anni dopo la prima proiezione. L'adattamento italiano è considerato meno buono dello standard Mikado. Nel 2010 il film è stato presentato in versione sottotitolata con un nuovo adattamento a cura di Gualtiero Cannarsi all'interno del Festival Internazionale del Film di Roma 2010 col titolo La sparizione di Chihiro e Sen per rendere con maggiore fedeltà l'originale.[3]

Il lungometraggio inizia con Chihiro, una bambina di 10 anni, seduta sul sedile posteriore dell'automobile dei genitori, mentre percorrono la strada verso la loro nuova casa, dove i traslocatori li attendono. Chihiro non vede di buon grado il trasloco, e passa il viaggio lamentandosi dello stesso e del fatto che il suo primo mazzo di fiori ricevuto in regalo fosse un regalo d'addio. Il padre crede di prendere una scorciatoia, ma quando si trova sbarrata la strada da una grossa costruzione dall'aspetto antico capisce di aver sbagliato strada. Nonostante la pietra davanti all'ingresso (in Giappone una pietra posata davanti all'uscio significa "per favore non entrare") questa strana costruzione attira i genitori della bambina, mentre Chihiro ne è impaurita. Ciononostante, i genitori decidono di esplorare la costruzione, che credono faccia parte di un luna park abbandonato, e Chihiro, suo malgrado, li segue.Quello che trovano all'interno è un'intera città composta esclusivamente da ristoranti e locali, senza però anima viva per le strade; la presenza del profumo di ottimo cibo attrae il padre di Chihiro, che trova un ristorante con il bancone imbandito di leccornie varie. Il ristorante è vuoto, ma i genitori di Chihiro decidono di mangiare comunque, con l'intenzione di pagare all'arrivo di eventuali padroni o camerieri. In realtà questa città apparentemente abbandonata è un complesso termale degli spiriti della natura, e la potente maga Yubaba, padrona del complesso, trasforma i due scrocconi in maiali, punendoli per aver mangiato il cibo sacro degli spiriti. A questo punto cala la notte, e gli spiriti ospiti delle terme cominciano ad affollare le vie; Chihiro si rende conto che sta lentamente diventando invisibile. La sua salvezza è l'incontro con Maestro Haku, apparentemente un ragazzo della sua età. Haku le fa mangiare un mirtillo proveniente dal mondo degli spiriti che rende Chihiro nuovamente tangibile e le permette di rimanere viva anche all'interno del complesso magico. Lui le spiega che l'unico modo per evitare di essere catturata dagli uomini di Yubaba è quello di trovarsi un lavoro all'interno delle terme: in questo sarà aiutata dall'"uomo delle caldaie". Per stipulare il contratto di lavoro, Chihiro viene privata del suo nome, e viene chiamata Sen (con un gioco di parole, o meglio di ideogrammi, non traducibile, vedi nota sotto); la mancanza del nome la rende incapace di abbandonare il mondo controllato da Yubaba. Inoltre Haku è suo amico solo di nascosto, perché ufficialmente è il braccio destro della maga Yubaba. Oltre a lui la bambina conosce altri personaggi e tutti in qualche modo diventano suoi amici, conquistati dalla sua semplice bontà. Lo scopo di Chihiro è quello di salvare i genitori, e per raggiungere il suo obiettivo, dovrà crescere interiormente. La sua crescita avviene sia tramite il duro lavoro a cui è sottoposta nelle terme, che con l'amore che nascerà tra lei e Haku. Sarà proprio questo legame, insieme al suo sconfinato altruismo e alla mancanza di avidità, che le permetterà di diventare più umile e coraggiosa e che alla fine le permetterà sia di aiutare Haku a ritrovare il suo vero nome sia di salvare i suoi genitori. Chihiro ricorda che lei ed Haku si sono incontrati prima: quando era più giovane era caduta in un fiume e sopravvisse perché era stata trascinata dalla corrente alla riva. Era stata salvata da Haku, che era lo spirito del fiume Kohaku. Dopo aver ricordato ciò, Chihiro dice ad Haku che il suo nome è Kohaku, e in questo modo lo libera dal controllo della maga Yubaba. Haku e Chihiro, appartenendo a due mondi diversi, si lasciano, con la promessa però di rivedersi. Usciti dal mondo magico i genitori non ricorderanno nulla, ma constateranno sorpresi che è passato più tempo di quello che pensavano, mentre la bambina conserva ancora sia il ricordo che le esperienze che un nastrino per capelli intessuto con tanto affetto dai suoi amici del mondo magico le hanno regalato.

Paul Zilio

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud


giovedì 16 dicembre 2010

L’angelo sterminatore - 16 dicembre 2010

L’angelo sterminatore (tit. or.: El angel exterminador)

Regia: Luis Buñuel

Messico, 1962, b/n

Durata: 95’

Cast: Silvia Pinal, Augusto Benedico, Enrique Rambal, Jacqueline Audere, Claudio Brook, José Bariera

Durante un ricevimento, un gruppo di facoltosi notabili messicani rimane misteriosamente intrappolato nel salone dove si svolge la festa. La costrizione, dovuta alla forzata prigionia, farà emergere il lato primordiale e ferino dei personaggi coinvolti, che si abbandoneranno, progressivamente, ad ogni sorta di abuso e licenziosa turpitudine.

Sognano di sognare (incubi) e di non riuscire a svegliarsi. Forse immaginano di essere svegli, quando in realtà dormono. O, chissà, forse sono le loro esistenze ad essere ancorate ad una dimensione di tenace ripetizione senza via di uscita. Proprio come gli incubi. I personaggi buñueliani si muovono sovente in questa zona di confine, dove non conta tanto l’indiscernibilità fra reale ed immaginario, quanto l’incedere di una quotidianità che ripete i meccanismi circolari del mondo onirico. È come se, paradossalmente, il sogno fosse la materia di cui è fatta la realtà, per capire la quale è necessario rivolgersi al suo doppio allucinato, immaginato, sognato appunto. La psicanalisi ed il surrealismo, di cui in un modo o nell’altro il regista aragonese è debitore, non fanno altro che indagare e rappresentare la realtà a partire dalle (impalpabili) coordinate tracciate dall’inconscio. E, visto che questo substrato originario, sommerso e spesso incontrollabile, è animato dalle pulsioni più oscure e selvagge, è, forse, proprio scavando nel cuore nero, negli abissi senza fondo dell’Es, che sarà possibile svelare, almeno in parte, l’essenza dell’umano.

Buñuel sembra osservare, curioso ed attento come uno scienziato, malizioso ed innocente, ad un tempo, come un ragazzino, i suoi personaggi muoversi come insetti sulla tela di un ragno – immagine che, peraltro, ricorrerà direttamente nel suo Cime tempestose (Abismos de pasión, 1953). Egli esprime quindi sia la sua fanciullesca passione per l’entomologia (che studierà anche, sia pure per poco, all’università), sia quella filosofica (di cui coronerà il percorso accademico, laureandosi nel 1924), sostenendo di essere “[…] interessato di più alla vita e alla letteratura degli insetti che alla loro anatomia, fisiologia e classificazione.” Inevitabile perciò il salto dagli insetti agli uomini, che egli tratta, però, proprio come se fossero mosche imprigionate in un recipiente di vetro.

Da questo punto di vista, L’angelo sterminatore è esemplare: un “esperimento” vero e proprio, ancora più esplicito di tutti gli altri lavori del regista, condotto su un gruppo estremamente selezionato di esseri umani – autorità, maggiorenti, esponenti delle classi più elevate, rappresentanti di quella che dovrebbe essere l’elite, il meglio della società – che, messi in una condizione di momentanea impotenza, quindi di prigionia ed assedio, regrediscono ad un animalesco e perverso stato di natura, pervasi dalle pulsioni più primordiali. Esattamente come accadrebbe a qualsiasi altro essere umano di qualsiasi ceto e cultura, se non in modo ancor più accentuato. Eros e Thanatos sono gli estremi, le cause dei tabù repressi e sedimentati nell’Es – sotto la vigilanza costante del Super-Io – nonché i motori che li innescano, in quanto propulsori di ogni pulsione. Quando l’uomo civile smarrisce la propria identità, dovendosi confrontare col proprio lato ancestrale e selvatico, essi tracimano, debordano, traboccano, travolgendo tutto ciò che incontrano al loro passaggio. Mentre intanto Buñuel se la ride, grazie al suo sguardo divertito, sospeso e ad un tempo impietoso. Lo sguardo del naturalista sorretto dalla vena ironica e grottesca del surrealista.

Giangiacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

giovedì 9 dicembre 2010

Gioved' 9 dicembre 2010 - Distretto 13 - Le brigate della morte

Distretto 13 - Le brigate della morte (Assault on Precint 13)

Regia: J. Carpenter

USA, 1976, durata: 90 minuti, colore.

E’uno dei titoli, se non il più emblematico, della rassegna.

Il punto di vista degli assediati ruota letteralmente intorno ad uno spazio vuoto e indecifrabile. Nello spazio si muovono a flussi gruppi sempre più numerosi di ombre simili agli zombie. Sembra non esserci una logica per questa contaminazione: una vera contaminazione di massa, anonima, che vuole uccidere, distruggere. Il cinema è assediato, proprio a partire dalla centralità del suo punto di vista, da un pubblico sempre più informe - si allude agli ectoplasmi del pubblico televisivo? - , da una violenza fine a se stessa determinata da un’alienazione che depriva i corpi di una soggettività sempre più anonima e contaminata. Lo spettatore si sente assediato da una “cosa” informe, ma ne è anche affascinato in quanto viene catturato in un vortice di violenza cieca e inarrestabile, quasi nichilista, innescata da una “massa” sibilante e “cattiva”. La distruzione è lo sfogo di un profondo senso di impotenza degenerante, che trasforma appunto i soggetti in una sorta di zombie senz’anima, senza speranza, senza vita.

Con questo scenario potremmo pertanto affermare che è il film più significativo della rassegna, proprio nella stretta relazione tra significato e significante, tra degrado simbolico e alienazione umana e degrado scenografico.

J. Carpenter, un cinefilo, viene ormai considerato un vero autore che riconosce in H. Hawks il suo maestro. Questo film, una sorta di rivisitazione del western, cita “Un dollaro d’onore”; infatti, per firmare il montaggio Carpenter usa lo pseudonimo di John T. Chance che era il nome del personaggio interpretato da John Wayne.

Autore dicevo, nonostante per un lungo periodo sia stato considerato un regista di “B-movies”, del cinema indipendente americano, anche se poi ha partecipato a delle grosse produzioni. Anarcoide molto vicino al cinema di Siegel e Corman: i suoi film, quasi tutti, sono stati prodotti a basso costo mantenendo un punto di vista autonomo ed evidenziando nel tempo come il suo cinema sia più politico di tanto cinema dichiarato tale. Certo gli scenari rappresentati sono post - apocalittici, spesso girati nella periferia di Los Angeles così da privilegiare il genere “horror”, anche se questa attenzione tende di più allo smontaggio del genere o dei generi affrontati.

“Horror come rivelazione. E così l’orrore diviene forma notturna di sopravvivenza dell’uomo-massa rispetto alle leggi diurne che lo hanno espropriato della sua soggettività e della sua fantasia gettandolo in ben più vasto soggetto e ben più profonda fantasia.” (da Segno Cinema n° 3, 1982, A. Abruzzese: “Segni certi di inquietudine”).

Nello spazio notturno, metropolitano, tutto sembra in superficie normale, tutto sembra scorrere, la stessa musica insinuante scorre e prepara uno sfondo in cui predomina un senso di vuoto, le persone assomigliano a degli esseri svuotati. La musica in quasi tutti i suoi film è stata scritta da lui stesso ed è una componente importante perché, ripeto, prepara uno sfondo predestinato e ineluttabile nella sua ripetitività. Lo stile stesso gioca nel buio, genera una scrittura apparentemente superficiale, secca, in cui il montaggio, come nel cinema classico, diventa quasi invisibile e fluttuante come i corpi che nel film spariscono, scompaiono letteralmente dalla vista.

Come nel film “1997: fuga da New York”, anche qui assistiamo quasi in tempo reale - inizia in piena notte e termina nella notte seguente - all’agguato teso da una banda di teppisti assassini.

Dalle radio della polizia veniamo informati dell’aumento vertiginoso della criminalità in alcuni quartieri di Los Angeles. Il commissariato di polizia, che deve essere trasferito, viene assediato da questi fanatici. Dentro ci sono un tenente di colore, due funzionarie, due malviventi in guardina di cui uno, Napoleone Wilson, condannato a morte e un pacifico signore al quale i teppisti hanno fatto fuori una figlia, una bambina e proprio per questo si trova in stato di shock tanto da non riuscire a spiaccicare alcuna parola. Ci troviamo quindi di fronte a un campionario umano di drop - out che devono lottare per la propria sopravvivenza fino alla fine non senza perdite umane. E nonostante l’arrivo della polizia che li salva rimane un senso di vuoto, nello sfondo surreale e quasi metafisico della musica.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

A cura di Paul Zilio

giovedì 2 dicembre 2010

Gli Invasati (The Haunting) - 2 dicembre 2010

Gli Invasati (The Haunting)

Regia: Robert Wise

Anno 1963, GB-USA

Interpreti: Julie Harris (Eleanor), Claire Bloom (Theodora), Richard Johonson (dott. Markway), Russ Tamblyn (Luke, l’erede), Lois Maxwell (signora Grace), Fay Compton

Il dottor Markway, esperto di parapsicologia, riunisce in una vecchia villa maledetta due donne, Eleanor e Theodhor, e un uomo, l’erede della tenuta, per studiare l’attività paranormale del luogo. La casa progressivamente si rivela viva e abitata da oscure presenze, e tutto sembra ricondurre a tragici eventi risalenti a molti anni prima. Una delle protagoniste viene in qualche modo rapita nel cerchio di quegli eventi passati, la sua debole mente, afflitta da sensi di colpa, si fa sempre meno lucida.

La paura e l’inquietudine sono generate da questa ambiguità: come in “Turn of the screws” di James, non è facile discernere gli eventi reali da quelli frutto della mente instabile della protagonista. La raffinata regia di Wise evoca l’orrore senza mostrarlo, inquadrando profili di statue, ghirigori che adornano il muro e sembrano volti umani, finestre come se fossero occhi, corridoi labirintici, ombre. Non si tratta solo di chlicè da genere gotico. Wise ha fatto apprendistato come montatore per la RKO, la famosa casa produttrice americana di film di genere (spesso veri e propri gioielli), e ha curato il montaggio di “Citizen Kane”. Di qui la tecnica che gli consente di realizzare invenzioni visive audaci, ed esemplari per molto cinema a venire (si pensi al recente “Shutter Island” di Scorsese), angolazioni e movimenti di camera che di nuovo suggeriscono quell’ambiguità di cui si è detto. Tra le tante si può ricordare la scena in cui Eleanor di notte, spaventata da rumori che vengono dal corridoio pensa di stringere la mano dell’amica Theodor, che invece è coricata dalla parte opposta della stanza. O quella della porta che si deforma. Oppure il magistrale flashback iniziale, in cui si susseguono tre morti violente. In definitiva si tratta di una delle più grandi ghost story girate, al cui impatto concorre non da ultimo l’uso dei rumori e delle musiche stranianti di Humphrey Searle.

Il film è tratto dal un romanzo di Shirley Jackson “The Haunting of hill hause” (1959), e di recente ne è stato fatto un indegno remake firmato da Jan De Bont.

lunedì 29 novembre 2010

L'idolo delle donne - 25 novembre

Titolo originale The Ladies Man; Stati Uniti; Anno 1961; Durata 106 min.; Regia Jerry Lewis

Film comico diretto e interpretato da *Jerry Lewis* nel 1961. Uscì nelle sale il 28 giugno 1961 distribuito dalla Paramount Pictures. Si tratta della seconda regia di Lewis dopo il successo di Ragazzo tuttofare l'anno precedente.

Trama:
Herbert H. Heebert (Jerry Lewis) è un giovanotto lasciato dalla propria ragazza il giorno della laurea, che decide di non innamorarsi mai più e di tenersi alla larga dalle donne. In seguito, per ironia della sorte, trova lavoro come tuttofare proprio in un pensionato femminile, diretto da Helen Wellenmellen (Helen Traubel), ex cantante lirica. Nonostante la maggior parte delle ragazze lo tratti solo come un cameriere e cerchi di ingraziarsi Herbert solo per servirsi di lui, Fay (Pat Stanley), una delle ragazze, lo aiuterà a superare la sua paura delle donne.

Critica:
Il film è il più interessante dal punto di vista registico tra quelli diretti da Lewis. Molteplici sono le soluzioni tecniche originali adottate per il film, tese a valorizzare la mastodontica scenografia costruita negli studi Paramount appositamente per le riprese. Non per nulla, negli extra dell'edizione in DVD, lo stesso Lewis racconta che, all'epoca delle riprese, spesso sul set era presente un giovane regista alle prime armi ancora sconosciuto, Francis Ford Coppola, ammirato dalla tecnica di regia utilizzata e dall'uso del famoso video-assistinventato da Lewis.
[1] Nel tratto surreale che contraddistingue le gag ideate per il film, come già nel
precedente *The Bellboy* (*Ragazzo tuttofare *), è riscontrabile l'influenza del cinema di Jacques Tati.
Per questo motivo e per le audaci soluzioni tecniche impiegate, il film fu molto amato dai critici e registi francesi della *Nouvelle Vague *.

Curiosità:
- Il celebre set costruito per il film è una delle più grandi scenografie mai costruite in interni negli studi Paramount. Il "pensionato" conta circa sessanta camere, e viene ripreso in "spaccato" come una casa delle bambole. - Il set del film di Lewis successivamente ispirerà il design delle scenografie per il film di Jean-Luc Godard, *Crepa padrone, tutto va bene * (1972).

*Informazioni tratte da wikipedia.it ( http://it.wikipedia.org/wiki/L%27idolo_delle_donne)*


Renato Carlassara
Arsenale Rosebud



domenica 28 novembre 2010

Un condannato a morte è fuggito - 18 novembre


(Un Condamné à mort s’est échappé, noto anche col titolo: Le Vent souffle il veut).

Regia: Robert Bresson

Francia, 1956, b/n

Durata: 97’

Cast: François Leterrier, Roland Monod, Charles Le Clainche, Maurice Beerblock, Jean-Paul Delumeau

Francia occupata, 1943. Nella prigione di Montluc, a Lione, il tenente Fontaine, ufficiale della Resistenza prigioniero dei nazisti, prepara pazientemente e minuziosamente la propria fuga. La condanna a morte da parte della commissione di inchiesta, che indaga sul suo caso, non farà altro che accelerarne le mosse.

In quel vero e proprio sottogenere cinematografico costituito dai film “carcerari”, sovente compare la parola fuga, sia nel titolo originale, che in quello italiano: Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz, Don Siegel, 1979), 1997 - Fuga da New York (Escape from New York, John Carpenter, 1981), Fuga per la vittoria (Escape to Victory, John Huston, 1981), solo per citarne alcuni. Si tratta di un vocabolo che lascia aperto uno spiraglio di imponderabilità. L’impresa è in corso, in divenire, durante lo sviluppo della trama, e talora può anche non riuscire, come nel caso, ad esempio, di Fuga in Francia (Mario Soldati, 1948). A Bresson, tutto questo non interessa. Già nel titolo di questo suo lavoro è presente l’esito, lo scioglimento fausto dell’intreccio. Al regista francese preme il come del racconto, il linguaggio che lo dispiega e soprattutto la personalissima ricerca della verità cinematografica, che scandisce ogni sua pellicola.

Fin dall’incipit del film, è presente l’asciutta austerità, la nitida sintesi, nonché la straordinaria eloquenza di uno stile, che cerca incessantemente di raggiungere l’archetipo di un cinema puro, quindi vero, necessario ed assoluto. L’inquadratura fissa iniziale, un fermo immagine, mostra un’ala del carcere di Montluc: il muro e più oltre alcuni edifici, parte del corpo del complesso. In sovraimpressione, compare una scritta bianca, in corsivo – la calligrafia è quella di Bresson – che dichiara: “Questa storia è vera. La do così com’è, senza ornamenti.” L’inquadratura successiva mostra una lapide, incastonata nel muro della prigione, con un’incisione: “Qui, sotto l’occupazione tedesca, patirono diecimila persone, vittime dei nazisti. Settemila soccombettero.” La macchina da presa muove allora orizzontalmente, abbandonando la lapide, fino ad inquadrare un particolare del muro, percorso in ogni direzione da fenditure più o meno profonde. Iniziano a scorrere i titoli di testa, accompagnati dal Kyrie della Messa in do minore di Mozart. Già in questi pochi attimi, emerge prepotentemente l’essenzialità dello stile bressoniano, unita ad un magistrale lavoro sul tempo. Nell’inquadratura iniziale, si passa dal senza-tempo (non a caso, come detto, un fermo immagine, una sospensione del divenire) del penitenziario – una zona che è sia uno spazio determinato ed individuato, Bresson di rado bara con la realtà, sia il simbolo, l’universale della prigionia e quindi, da ultimo, proprio per questo, un luogo qualsiasi – all’altrove temporale, sempre-essente, dal quale l’autore ci scrive. Si procede poi col presente della targa commemorativa, nell’inquadratura seguente, e si viene proiettati, quindi, attraverso il particolare del muro del carcere, nel passato (che inizia ad immergerci, senza fretta, nella dimensione narrativa), per introdurre il quale, basta un lieve slittamento della cinepresa, senza stacchi di montaggio, dissolvenze od altro.

Anche la voce off del protagonista riveste un ruolo primario di determinazione temporale. Mentre, nel contesto del falso presente dell’azione, le voci dei personaggi, compresa quella di Fontaine, sono tutte “spazializzate”, attraverso un effetto di riverbero, una specie di eco sottile, dando l’impressione di cozzare con i confini di un ambiente chiuso, quella off è come purificata, decontestualizzata, assolutizzata, in quanto proveniente da una dimensione spazio-temporale non identificabile. Essa ha il compito di confliggere col (falso) presente degli avvenimenti narrati, riportando lo spettatore alla consapevolezza che tutto è già accaduto, compiuto, e che, quindi, tutte le azioni, scelte, svolte dell’intreccio ricadono sotto le categorie della necessità e della predestinazione. Le circostanze sembrano disporsi seguendo la casualità del quotidiano e le decisioni del protagonista, ma in realtà esse rientrano in un disegno, in una trama, che sono già stati tracciati.

Contestualmente al trattamento tecnico della voce di Fontaine, va notato come il lavoro di Bresson sul suono, in generale, sia onnipresente, maniacale, certosino e portatore di verità – nel senso di rispetto, apertura ed amore per la realtà – sia a livello espressivo, che a livello narrativo. Come, del resto, nella totalità della sua opera. Analizzare e comprendere tale lavoro significa giungere all’essenza, al significato profondo, di questo e degli altri film del regista transalpino.

Innanzitutto, la rifrazione sonora che, come detto, connota le voci dei personaggi, è molto più accentuata per quelle dei carcerieri, veri e propri padroni dello spazio, anche e soprattutto acustico, ed allo stesso tempo, imprigionate, proprio da tale spazio. Radicati nel luogo di cui sono custodi, i secondini è come se ne fossero parte integrante, ombre senza volto e senza identità, schiavi del loro unico ruolo. Inversamente, i detenuti, pur costretti in celle anguste e dai muri solidissimi – sempre inquadrate e descritte come brandelli di un territorio, che lo sguardo non è in grado di abbracciare compiutamente – riescono, proprio attraverso le pareti, a dialogare, grazie a leggeri tocchi e semplici codici di comunicazione.

Un altro conflitto acustico è innescato dalla contrapposizione fra i rumori della prigione e quelli provenienti dalla città. I primi sono gli spari – le esecuzioni dei condannati a morte – i passi pesanti degli aguzzini, lo scattare delle serrature delle celle, il clangore delle chiavi che i guardiani fanno scorrere sulle ringhiere delle scale, a ribadire il loro dominio sul luogo e sugli uomini che lo abitano forzatamente. Rumori di morte. Gli altri provengono da un altrove, così vicino, eppure così lontano, che rappresenta, invece, la vita. In particolare, il fischio del treno, che sembra richiamare Fontaine al suo compito: fuggire. Mano a mano che la via verso la libertà sarà più vicina, ancorché problematica ed irta di ostacoli, tale fischio, accompagnato dallo sferragliare dei vagoni sulle rotaie, si farà sempre più intenso e ricorrente. Il suono, ogni suono, ha quindi una duplice funzione nell’opera bressoniana: raccordare gli spazi parcellizzati delle immagini e costruire un superiore livello di senso, spesso simbolico, in grado di raccogliere ed unificare i frammenti visivi e di tendere ad un assoluto cinematografico capace di plasmare e di trascendere la materia visuale.

“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va” – come dice Gesù a Nicodemo nel passo evangelico a cui si ispira l’”altro” titolo del film, che richiama la ri-nascita del protagonista, attraverso la grazia divina – e Bresson ne ha portato il respiro, l’impercettibile sonorità.

venerdì 12 novembre 2010

Radiazioni BX: distruzione uomo (The Incredibile Shrinking Man) - 11 novembre 2010


Regia: Jack Arnold

Usa, 1957, b/n

Durata: 78’

Cast: Grant Williams, Randy Stuart, April Kent, Paul Langton, William Schallert, Billy Curtis

Usa, anni ’50. In seguito all’esposizione ad una nube radioattiva, Scott Carey inizia a rimpicciolire. Le cellule del suo organismo reagiscono alla contaminazione contraendosi; il suo corpo si riduce di giorno in giorno, mentre l’ambiente circostante diviene, a poco a poco, sempre più minaccioso ed ostile.

“Se non accettano adesso le nostre condizioni, si possono aspettare una pioggia di distruzione dall’alto, come mai se ne sono viste su questa terra.” Harry Truman, 33° presidente degli Stati Uniti, saluta così, il 6 agosto del 1945, l’annientamento nucleare della città nipponica di Hiroshima. Centinaia di migliaia di morti, per la maggior parte civili, sia durante l’esplosione, sia in seguito, a causa dell’esposizione alle radiazioni. Il 9 agosto, stessa sorte per Nagasaki. Nel 1955, Dick Powell gira un film in costume sulla vita e le imprese di Gengis Khan: Il conquistatore. Protagonista è John Wayne (ebbene sì, nella parte del condottiero mongolo!!). Parte della pellicola viene realizzata nel Nevada, a poca distanza dal deserto dello Utah, dove poco tempo prima erano stati effettuati alcuni esperimenti atomici. La stragrande maggioranza degli attori fra cui anche Wayne degli operatori nonché il regista, nell’arco di una trentina d’anni, si ammaleranno e moriranno di cancro. Niente sarà più lo stesso, dopo l’avvento della minaccia nucleare (sotto la quale si tesseranno anche alcuni degli esili fili su cui si reggerà l’equilibrio mondiale all’epoca della Guerra Fredda).

Vi è una sorta di preveggenza e lungimiranza, in molto cinema ed in molta letteratura di genere, nell’horror e nella fantascienza in particolare, in grado di chiarire ed amplificare, di cogliere ed interpretare i segni del presente e di proiettarli nel futuro. Radiazioni BX (tratto da un romanzo di Richard Matheson, che si occupa anche della sceneggiatura) riveste, in tal senso, un ruolo particolarmente rilevante, in quanto, pur prendendo le mosse da tale temperie e pur evidenziandone alcuni tratti pertinenti, riesce soprattutto a rielaborarne le coordinate, conducendo lo spettatore in un viaggio senza ritorno ai confini estremi delle proprie paure ed angosce.

Nella pellicola di Arnold, è possibile rintracciare sia i sintomi della deriva individuale, che di quella collettiva, di un’umanità, che si risveglia attonita all’indomani del secondo conflitto mondiale e che scopre di essere ancora terrorizzato, nonostante la guerra sia finita. Tutto sta ineluttabilmente cambiando ed anche l’uomo si percepisce come sempre più periferico, massificato, rimpicciolito.

Quando Scott Carey, il protagonista, diviene consapevole della mutazione che sta, letteralmente, invadendo il proprio organismo, egli diviene una tragica sineddoche, ma anche un simbolo, dello scarto che allontana progressivamente ed irreversibilmente l’essere umano dal mondo che egli sta costruendo (beninteso, producendo macerie!!). L’energia atomica può produrre effetti devastanti, inconcepibili e per molti versi incomprensibili per la mente umana, nella sua manifestazione macroscopica. L’esplosione di un ordigno nucleare è, probabilmente, lo spettacolo più agghiacciante ed annichilente a cui un essere vivente può assistere. Ancor più inquietante risulta però l’effetto microscopico che essa genera. Il mondo organico non è in grado di fronteggiare le aberrazioni che la radioattività induce, e gli esiti che ne derivano non possono che condurre alla degenerazione dei singoli organismi e dell’ecosistema che li ospita. L’alterazione cellulare causa dell’insorgere del mostruoso, del deforme e dell’informe atterrisce e sgomenta forse ancor più che non la distruzione immediata e repentina. È su quest’ultimo aspetto che pone l’accento Radiazioni BX, originando un crescendo di angoscianti presagi, mano a mano che il protagonista decresce.

Da un altro punto di vista, contiguo a quello appena esaminato, la pellicola di Arnold istituisce una magistrale riflessione sociologica ed antropologica, attraverso l’allegoria filmica. Il ventesimo secolo e l’alba del ventunesimo sono segnati da un’evoluzione tecnologica e scientifica senza precedenti. I macchinari, gli apparati ed i dispositivi, che l’uomo costruisce per migliorare ed in definitiva per estendere ciò che Heidegger definiva “il dominio tecnico sulla Terra”[1], piuttosto che accrescere la sua presa sulle cose, la rendono viepiù malferma ed incerta. L’universo tecnologico, anziché abbreviare la distanza fra uomo ed ente, la aumenta, creando, di fatto, un’ulteriore dimensione organizzata e strutturata, le cui leggi sono perversamente aliene rispetto a quelle che governano le naturali propensioni, le azioni, le mozioni ed i bisogni antropici. Come sostiene saggiamente Mario Pezzella: “La vita organica sembra divenuta inferiore e meno perfetta di quella inorganica. L’uomo ha la percezione di non essere all’altezza dei propri stessi prodotti”.[2] Le prestazioni delle apparecchiature tecniche, non importa se militari o civili, implicano una attenuazione dell’umano, che comporta una fondamentale ed inevitabile disumanizzazione.

Non si fermano qui, comunque, le suggestioni evocate da Radiazioni BX, giacché vengono anche magistralmente sondati alcuni decisivi meccanismi nei rapporti esistenziali di Scott con i propri simili e col proprio ambiente domestico. Una volta che egli inizia a rendersi conto del rimpicciolimento, la propria identità psicofisica inizia, ovviamente, a vacillare. Una delle sue prime reazioni è guardarsi allo specchio. I suoi tratti somatici, però, non cambiano. Semplicemente, il suo corpo inizia a restringersi, irreversibilmente. Quando le sue dimensioni cominciano visibilmente a mutare, si modificano tragicamente anche le sue relazioni sociali ed umane. Egli diviene lo zimbello di giornalisti a caccia di scoop, di vicini di casa curiosi nei confronti del novello freak, di emittenti televisive alla ricerca di un nuovo spettacolo, della moglie (anche se la cosa non viene esplicitamente dichiarata, soprattutto nelle ovvie implicazioni sessuali), che è costretta ad accudirlo come un fragile animale domestico. Infine è la casa, dapprima luogo di rifugio dalle disturbanti attenzioni del mondo esterno, a rappresentare per lui un ambiente sempre più vasto ed inospitale. Quindi, si configura anche un magistrale saggio sul rapporto fra familiare e perturbante. Quando Scott, alto pochi centimetri, alla fine del film, sta per avviarsi verso il proprio giardino, per lui una giungla impenetrabile, anche il percorso dell’uomo contemporaneo, simbolicamente, sta per compiersi – “Cos’ero? Ancora un essere umano? Oppure ero l’uomo del futuro?” – questo si chiede Scott. Ecco, forse l’uomo del futuro che però parla al passato, in voce off – altro non è che un estenuato sguardo su un infinito più facile da raggiungersi scomparendo.


Giangiacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud





[1] Martin Heidegger: Sentieri interrotti, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1968, rist. in “Paperbacks Classici”, p. 97.

[2] Mario Pezzella: Il volto di Marylin. L’esperienza del mito nella modernità. Ed. manifestolibri, Roma, 1999, p. 11.

lunedì 1 novembre 2010

1941 Allarme a Hollywood - 4 novembre 2010











1941 Allarme a Hollywood

Un film di Steven Spielberg, urata 118 min. - USA 1979

Con Dan Aykroyd, Ned Beatty, John Belushi, Lorraine Gary, Murray Hamilton, Christopher Lee, Tim Matheson, Toshirô Mifune, Warren Oates, Robert Stack, Treat Williams, Nancy Allen, Mickey Rourke.

Titolo originale “1941”


Sono passati solo pochi giorni dall'attacco della flotta Giapponese alla base navale statunitense di Pearl Harbor, che già sulle coste assolate della California scoppia una psicosi collettiva su un altro eventuale attacco dei giapponesi in pieno territorio americano. In effetti tutti i torti non li hanno, dato che un sommergibile nipponico è in agguato per attaccare Hollywood e, in definitiva, il sogno americano. A bordo del sottomarino un ufficiale tedesco supervisiona il lavoro degli alleati orientali, alla disperata ricerca della città del cinema, dato che la bussola di bordo è guasta. Con nemici del genere, la vittoria non poteva essere che sicura, peccato che a contrastarli troviamo un aviatore pazzo e quasi sempre ubriaco, un manipolo di soldati buoni a nulla, due civili con due fucili che difendono la costa dall'alto di una ruota panoramica e una famiglia con un cannone vista mare. Riusciranno gli States a fermare l'invasione dei musi gialli?

Narrazione accelerata, geniale, con una sequenza continua di eccessi, “1941” è un esilarante caleidoscopio antibellico, zeppo di risate e citazioni cinematografiche, scritto da Bob Gale e Robert Zemeckis, i futuri autori di Ritorno al futuro (1985).

Quindi un film antipatriottico che mette in ridicolo le paranoie americane e, proprio per questo, rischiò il fallimento in patria incassando meno del costo. Il pubblico europeo ne decretò poi il successo.

Il film contiene giocose autocitazioni del regista Steven Spielberg: la scena iniziale è un omaggio a Lo squalo e la stazione di servizio che si vede all'inizio è la stessa di Duel. Il film è stato inoltre citato a sua volta: ne “I predatori dell'arca perduta” Indiana Jones imita John Belushi che nel finale del film, in piedi su un sommergibile, fa il saluto militare agli amici. Il portaordini in motocicletta è il regista John Landis, in una rara apparizione senza barba. Nel cast, ricchissimo di stelle, sono presenti anche miti del cinema come Christopher Lee e Toshirô Mifune.

I ringraziano “Mymovies” e “Pellicolascaduta”.

mercoledì 13 ottobre 2010

Cineforum 2010-2011 Assedia(n)ti














- 1941- Allarme a Hollywood (1979) di S. Spielberg (USA); giovedì 4 novembre

- Radiazione BX distruzione uomo (1957) di J. Arnold (USA); giovedì 11 novembre

- Un condannato a morte è fuggito (1956) di R. Bresson (F); giovedì 18 novembre

- L’idolo delle donne (1961) di J. Lewis (USA); giovedì 25 novembre

- Gli invasati (1963) di R. Wise (USA); giovedì 2 dicembre

- Distretto 13: le brigate della morte (1976) di J. Carpenter (USA) v.m.14; giovedì 9 dicembre

- L'angelo sterminatore (1962) di L. Bunuel (E); giovedì 16

- La città incantata (2001) di H. Miyazaki (J), cartoon; giovedì 23 dicembre

- Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) di S. Lumet (USA); giovedì 13 gennaio 2011

- Corridoio della paura (1963) di S. Fuller (USA); giovedì 20 gennaio

- Alba tragica di M. Carnè (1939) (F); giovedì 27 gennaio

- Repulsion (1965) di R. Polansky (GB); giovedì 3 febbraio

- Il giorno degli zombie (1985) di G. A. Romero (USA) v.m.18; giovedì 10 febbraio

- Un tranquillo weekend di paura (1972) di J. Boorman (USA); giovedì 17 febbraio

- The Killer (1989) di J. Woo (Hong Kong); giovedì 24 febbraio

- La morte corre sul fiume (1955) di C. Laughton (USA); giovedì 3 marzo


Serata proiezione sabato 18 dicembre dalle ore 17.00 fino alla notte di domenica 19 alle ore 2.00:

- La casa 2 (1987) di S. Raimi (USA) v.m.14

- Oasis (2002) di Lee Chang-Dong (Kor)

- La donna di sabbia (1964) di H. Teshigahara (J)

- L'ultimo uomo della terra (1963) di U. Ragona/S. Salkov (I)

- Them (2006) di D.Moreau/X. Palud (F)


Buio, immobilità, impotenza motoria, vicinanza di estranei. Unico vettore percettivo è lo sguardo, proteso verso un (non)luogo circoscritto. Unica azione possibile, fissare ciò che accade innanzi ai propri occhi. La condizione dello spettatore cinematografico è, per molti versi, assimilabile a quella dell’assediato/assediante, cioè di colui che compie l’azione di obsidēre, vale a dire di “star seduto innanzi”. Chi guarda verso lo schermo accerchia il film per conquistarne il senso, il peso, l’intensità, ma si lascia anche circondare dalle immagini, dai suoni, dalle voci e dalle vicende narrate. Ogni visione filmica è la storia di questo assedio e dell’irruzione delle ombre, dei fantasmi, delle tracce e delle fisionomie di mondi, luoghi e corpi che non ci appartengono e che, per ciò stesso, rilanciano il nostro desiderio e la nostra paura dell’ignoto, di ciò che ancora non conosciamo e che, forse, mai conosceremo appieno.

Di qua o di là dal muro, o dallo schermo, nella vita reale, così come in quella proiettata sullo schermo, nella zona di confine, talora labile, che separa gli astanti, a volte contendenti, la situazione è sempre la medesima: l’attesa di un evento, di un segno, di un’iniziativa. Un oscuro scrutare in quella zona d’ombra che ci separa dall’altro e che lo rende così lontano e così vicino, così sconosciuto eppure inquietantemente prossimo a noi.

Il racconto cinematografico d’assedio non è altro, trascendendo ogni metafora, che la riproposizione più efficace della nostra condizione di spettatori e, più in generale e in modo ancor più sostanziale, di esseri umani.


sabato 19 giugno 2010

Italia - Nuova Zelanda su maxischermo in diretta

In occasione dei mondiali di calcio organizziamo la proiezioni delle partite dell'Italia.
Domenica 20 giugno ore 16 Italia-Nuova Zelanda.
Videoproiettore, 50 posti a sedere, bibite e birre fresche. Vi aspettiamo!
Naturalmente l'evento è aperto a tutti quindi passate parola.

lunedì 14 giugno 2010

Mondiali di calcio - partite dell'Italia

In occasione dei mondiali di calcio organizziamo la proiezioni delle partite dell'Italia.
Si comincia Lunedì 14 giugno alle ore 20 e 30 con Italia-Paraguay.
Videoproiettore, 50 posti a sedere, bibite e birre fresche. Vi aspettiamo!
Sede: Via Matteotti 14/a - Castelfranco.
Naturalmente l'evento è aperto a tutti quindi passate parola.

lunedì 22 marzo 2010

Silvia Moras e Cinemazero mercoledì 24 marzo 2010

Verranno proiettati alcuni filmati preparati da Silvia Moras per l'archivio di Cinemazero. L'elemento conduttore sarà un film di Alberto Fasulo "Rumore bianco" un documentario che ha ricevuto numerosi premi, girato nei pressi del fiume Tagliamento.


Cinemazero nasce, come Associazione Culturale, nel 1978. Nel settembre del 1982 si svolge la prima edizione de Le Giornate del Cinema Muto che diverranno nel corso del tempo uno degli appuntamenti internazionali più prestigiosi dedicati alle origini del cinema e uno dei dieci Festival cinematografici al mondo più acclamati. L’Associazione ha sviluppato e continua a sviluppare una mole d’iniziative qualificate che varcano i confini nazionali, da mostre fotografiche a convegni di studi, da retrospettive curate filologicamente ad un’attività editoriale sempre al passo con i tempi. Pordenonelegge.it, per esempio, di cui siamo fondatori e fra gli organizzatori, è uno dei principali e più seguiti festival internazionali di letteratura di tutta Italia. Cinemazero possiede due degli archivi più completi a livello mondiale su Pier Paolo Pasolini e Tina Modotti.

Cinemazero ha vinto nel 2006 il premio di miglior sala d'essai d'Italia.


Silvia Moras è formatrice e responsabile e coordinatrice delle attività didattiche del linguaggio audiovisivo di Cinemazero, co-organizza Filmmakers al chiostro, rassegna di cinema indipendente e diverse iniziative culturali della medesima associazione. Ha curato diverse pubblicazioni tra le quali “Gli enigmi di Werner Herzog” edito da Cinemazero, nell’ambito della retrospettiva Maestri contemporanei, nel 2008 è autrice del saggio “Chi ha paura dell’uomo giallo?” nel volume “I Simpson. Il ventre onnivoro della tv postmoderna” edito da Bulzoni Editore e ha collaborato alla stesura del volume “Senza re e senza patria. Il cinema di Joseph Losey” curato in occasione de Lo Sguardo dei maestri. In seguito si è occupata della filmografia e supervisione dei testi dell’omonimo volume edito da Il Castoro


Silvia Moras

Mediateca Pordenone di Cinemazero

Piazza della Motta, 2

33170 Pordenone

Marco Segato - venerdì 19 marzo Via Anelli

Proiezione del documentario "Via Anelli"

Filmografia di Marco Segato

1998. La voce del silenzio (soggetto e regia)
Documentario realizzato all’interno del laboratorio del corso di laurea di Storia del Cinema dell'Università di Padova. Presentato in concorso al 16° Torino Film Festival.

2003. Rumore Bianco (soggetto e regia).
Documentario realizzato come saggio finale al Master di documentario dalla Scuola Civica di Cinema di Milano. Presentato a vari festival (Bergamo Film Meeting, Bellaria Film Festival, Festival di Siena).

2004. Col cielo di questa città (soggetto, regia e produzione).
Documentario prodotto con il contributo della Regione Veneto e del Progetto Giovani di Padova. Presentato come evento speciale alla sesta edizione di Videopolis.

2006. Preventorio (soggetto, regia e produzione)
Documentario prodotto con il contributo della Provincia di Padova e dell’ULSS 17.
Menzione speciale all'ottava edizione di Videopolis.

2007. Ci resta il nome (soggetto e regia).
Documentario prodotto da Jolefilm. In onda su La7 e presentato a vari festival (CadoreDocFestival, LagoFilmFest, Antennacinema, Premio Libero Bizzarri). Menzione speciale alla seconda edizione dell'EtnoFilmFestival.

2008. Il Sergente (regia).
Riduzione video dello spettacolo teatrale di Marco Paolini ispirato dall'omonimo libro di Mario Rigoni Stern, prodotto da Jolefilm e distribuito in dvd da Einaudi.

2008. Via Anelli (soggetto, regia e fotografia).
Documentario prodotto da Jolefilm. Presentato ad oggi a 16 festival festival. Premio “la storia siamo noi” al 6° Valsusa Film Festival e premio “Negrizia” al 29° Festival del Cinema Africano di Verona.

2009. Pensavo fosse Bach (regia)
Riduzione video dello spettacolo\concerto di Mario Brunello con Vinicio Capossela. Prodotto da Antiruggine per SkyClassic.

domenica 21 marzo 2010

Sguardi sul territorio: sopralluoghi


Continua l’indagine sul territorio veneto attraverso l’immagine filmica, iniziata con la rassegna cinematografica Veneto in film curata dall’Associazione Culturale Porte Aperte e dal Gruppo Cinema Arsenale Rosebud. Questa nuova rassegna ha come titolo Sguardi sul territorio e prevede proiezioni di cortometraggi e documentari scelti e presentati da critici o da registi o da altre personalità che a vario titolo si sono trovate a lavorare in contesti fortemente legati alle realtà territoriali. La prima parte, Veneto in film, prediligeva l’aspetto evocativo del cinema proponendo letture del territorio mediate dallo sviluppo di una storia, dalle esigenze sceniche, dal tempo stesso intercorso tra il momento della produzione e quello della fruizione. La seconda parte, Sguardi sul territorio, si caratterizza per il valore di testimonianza più o meno diretta, ma pur sempre filtrata dall’occhio filmico di un autore, nell’intento di promuovere una diversa partecipazione del pubblico: l’interazione con gli autori/curatori delle serate, la collaborazione con enti, organizzazioni, associazioni diverse, lo spostamento presso altre sedi, altri luoghi e quindi l’incontro con il pubblico che a quelle sedi e associazioni è legato da una consolidata consuetudine. Questa seconda parte, pertanto, assume un carattere nomade, polimorfo, fluido che compendia e integra lo sguardo più intimista e interiorizzato della prima.

Gruppo cinema Arsenale Rosebud

venerdì 5 marzo 2010

Il commisario pepe

Il Commissario Pepe
Regia: Ettore Scola
Italia, 1969, durata 98 minuti, colore
Interpreti principali: Ugo Tognazzi (il commissario Pepe), Silvia Dionisio (Silvia), Gaetano Cimarosa (l’agente Cariddi), Marianne Comtel (Matilde), Veronique Vendell (Maristella), ElsaVazzoler (la vecchia prostituta), Giuseppe Maffioli (il mutilato).


E’ il film che ha lanciato Ettore Scola come regista.
“Quello che mi interessa in un film è il racconto” così affermava l’autore, che viene considerato soprattutto un grande sceneggiatore della commedia all’italiana e che solo più tardi cominciò a dedicarsi alla regia, senza peraltro intenzioni fortemente autoriali. Egli voleva raccontare semplicemente delle storie ed essere lineare con la propria scrittura. Nonostante dunque non proponesse alcuna “Weltanschauung” declamata, intendendo raccontare delle storie e basta, proprio grazie a questa sua vocazione artigianale riuscì a produrre alcuni film molto importanti nel panorama del cinema italiano. Per ottenere buoni risultati fece conto su buoni interpreti, nel caso specifico del film in oggetto la presenza di Ugo Tognazzi diventò fondamentale; solo lui poteva interpretare quel personaggio tanto stralunato da raggiungere una dimensione disincantata, immerso in un mondo sempre più corrotto della provincia veneta, così bigotta e al contempo ipocrita.
Il film, tratto da un romanzo di ambientazione veneta di Ugo Facco De Lagarda, è ispirato da fatti di cronaca più o meno simili a quelli già portati sullo schermo da Pietro Germi con “Signore e signori”, ma anche descritti ne “Il disco volante” di Tinto Brass. ( La provincia veneta: sorta di Vandea democristiana dove la buoncostume fa finta di niente, mentre dietro le quinte del casa-chiesa-lavoro ne succedono di tutti i colori.)
Rispetto alla commedia il film assume le vesti del poliziesco. L’inizio è sorprendente, sembra un tipico film della serie appunto poliziesca degli anni settanta inaugurata a mio avviso da “Banditi a Milano” di C. Lizzani, con una volante della polizia a sirene spiegate che attraversa la città, tutto sommato apparentemente tranquilla, fino al momento in cui irrompe la motocarrozzina del mutilato (uno straordinario Maffioli), urlante nel denunciare le malefatte di alcuni cittadini “perbene”. E qui comincia l’indagine del commissario…
Il film in questo senso si dimostra coraggioso perché incentrato su un poliziotto e perché realizzato negli anni in cui la simpatia per le forze dell’ordine toccava, almeno a sinistra, il minimo storico. Il commissario Pepe è un onesto funzionario dello Stato pagato per non vedere e non compromettere l’ordine costituito; perciò, nonostante appartenga alla commedia all’italiana, si ride assai poco e tutto s’insabbia in un’amara, anzi amarissima, palude ove lo stesso commissario, suo malgrado, viene inghiottito.



Trama: commissario di polizia di una cittadina apparentemente ordinata e tranquilla, il dottor Antonio Pepe viene incaricato di svolgere indagini preliminari sulle dicerie messe in giro da un bizzarro invalido che scorrazza per la città a bordo della sua carrozzella. Nel corso dell’inchiesta, ha modo di appurare la fondatezza delle denunce, che coinvolgono gente di tutte le classi sociali, non esclusi certi pezzi grossi. Tanto per cominciare ci sono due distinti vecchietti che affittano il loro appartamento a ore; e poi, in ampio campionario, una ex manicure che convive con dieci studenti, la figlia del prefetto che si prostituisce per mantenere l’amante, l’illustre clinico che ha rapporti omosessuali con i giovani ricoverati, il preside che insidia gli allievi, la nobildonna che, tra un’opera di beneficenza e l’altra, organizza orge in villa, la suora lesbica che si prende “cura” delle novizie.
Antonio Pepe scopre anche qualcosa che lo riguarda: Matilde, la ragazza con cui sta, spesso a Milano per ragioni di studio, posa in realtà per riviste porno. Sconcertato dalle scoperte, decide di proseguire e prepara per i superiori un voluminoso e documentato dossier … Lodato in “alto loco” per il suo attivismo, viene invitato a “stralciare” le posizioni dei personaggi più in vista, per non far nascere inutili scandali. Inviti pressanti, vere e proprie ingerenze, dinnanzi alle quali il commissario non sa cosa scegliere: certo non la logica di censo. E allora: o tutti o nessuno: optando per la seconda soluzione, brucia l’intero dossier e chiede il trasferimento ad altra sede, giusto in tempo, prima di partire, per assistere alla processione in onore del patrono, cui prendono parte i notabili del paese, compresi quelli coinvolti nell’inchiesta.



Note: ambientato tra Vicenza e Bassano del Grappa. Le principali scene sono state girate quasi tutte a Bassano, mentre a Vicenza è stata ripresa la chiesa Aracoeli, che si trova vicino al Parco Querini ove è stata girata un’altra scena. Le scene a Bassano invece sono state girate soprattutto in Piazza della Libertà e Piazza Garibaldi, un’altra nei pressi del ponte Coperto.
Il film riprende con una maggiore dose di sarcasmo il discorso moralizzatore già compiuto in terra veneta da Germi con il film “Signore e signori”; evidenzia una sorta di Grillo sproloquiante, simbolo cattivo e irridente della voce della coscienza, nel personaggio d’un invalido in carrozzina interpretato con sanguigna persuasione dal trevigiano Giuseppe Maffioli.


A cura di Paul Zilio (gruppo cinema Arsenale Rosebud)