giovedì 23 dicembre 2010

La città incantata - 23 dicembre 2010

La città incantata (, Sen to Chihiro no kamikakushi?)

Regia: Hayao Miyazaki

Giappone, 2001 durata: 123 minuti, colore.

La città incantata (千と千尋の神隠し, Sen to Chihiro no kamikakushi?) è un film d'animazione giapponese. Realizzato con un budget elevato (1.900.000.000 ¥, circa 16 milioni di €), il film presenta l'altissima qualità tecnica consueta dello Studio Ghibli, ed ha vinto numerosi e prestigiosi premi. Sembra una favola, ma ritengo troppo riduttivo considerarla tale. In realtà al suo interno fa emergere un materiale mitologico e folklorico assai complesso e intricato. In questo senso partendo dai presupposti della cosiddetta teoria antropologica di Propp, che dichiara come ci sia un rapporto costante tra i motivi in questione e gli “istituti sociali” (il regime sociale), all’interno del quale i motivi sono stati creati; si prendono in considerazione il fenomeno della trasformazione e della trasmissione dei motivi giungendo a focalizzare la libertà della creazione di ciascun narratore al momento in cui, nell’alternarsi delle culture, ogni motivo non risulta più connesso con istituti sociali ancora in vita. Dal momento in cui si perdono questi contatti, diventa però sempre più difficile dare significati a un materiale che ci risulta sempre meno comprensibile. Infatti nell’intricatissima esperienza di Chihiro emergono delle connessioni archetipiche profonde che inevitabilmente ci toccano in modo vago e perturbante. Non possiamo non confessare come questo mondo ci trasporti letteralmente in una dimensione altra in cui siamo circondati (assediati) da esseri e fantasmi. Il mondo adulto come i genitori di Chihiro ha perso i contatti definitivamente con questa realtà, come nella tematica del fanciullino pascoliano; la nostra sensibilità tutta concretezza e contabilità si è indurita. I genitori così vengono trasformati in maiali e alla fine della storia non si ricorderanno nulla di quello che è accaduto. Paradossalmente i veri bambini sono loro piuttosto della figlia che si prende la responsabilità di salvarli. Assedio quindi da parte di una città incantata che mette a dura prova Chihiro facendola crescere ed assimilare una sorta di saggezza delle “tradizioni” all’interno di una foresta di simboli e archetipi che dal profondo come da una sorgente danno vita ad una superficie d’incanti e magie.

Il film è liberamente ispirato al romanzo "Il meraviglioso paese oltre la nebbia" della scrittrice Kashiwaba Sachiko. È una lunga e delicata favola sulla semplicità d'animo, il coraggio, l'amicizia, l'amore, ma soprattutto la forza dell'altruismo. Tecnicamente molto curato, sia a livello di scenografie, disegni, movimento ed espressioni facciali, che a livello di dialoghi, è ricco di accorti particolari che lo rendono umano e vivo.La bambina protagonista non è dotata di superpoteri, né di doti fisiche fuori dal comune, ma più umanamente di forza di volontà e bontà spontanea e semplice. Il suo viaggio nella città incantata di certo si apprezza maggiormente potendo cogliere gli infiniti riferimenti alla vasta cultura giapponese (spiriti e dei in primo luogo), ma non è meno significativo o toccante anche per uno spettatore occidentale.

In Italia è approdato nell'aprile 2003, due anni dopo la prima proiezione. L'adattamento italiano è considerato meno buono dello standard Mikado. Nel 2010 il film è stato presentato in versione sottotitolata con un nuovo adattamento a cura di Gualtiero Cannarsi all'interno del Festival Internazionale del Film di Roma 2010 col titolo La sparizione di Chihiro e Sen per rendere con maggiore fedeltà l'originale.[3]

Il lungometraggio inizia con Chihiro, una bambina di 10 anni, seduta sul sedile posteriore dell'automobile dei genitori, mentre percorrono la strada verso la loro nuova casa, dove i traslocatori li attendono. Chihiro non vede di buon grado il trasloco, e passa il viaggio lamentandosi dello stesso e del fatto che il suo primo mazzo di fiori ricevuto in regalo fosse un regalo d'addio. Il padre crede di prendere una scorciatoia, ma quando si trova sbarrata la strada da una grossa costruzione dall'aspetto antico capisce di aver sbagliato strada. Nonostante la pietra davanti all'ingresso (in Giappone una pietra posata davanti all'uscio significa "per favore non entrare") questa strana costruzione attira i genitori della bambina, mentre Chihiro ne è impaurita. Ciononostante, i genitori decidono di esplorare la costruzione, che credono faccia parte di un luna park abbandonato, e Chihiro, suo malgrado, li segue.Quello che trovano all'interno è un'intera città composta esclusivamente da ristoranti e locali, senza però anima viva per le strade; la presenza del profumo di ottimo cibo attrae il padre di Chihiro, che trova un ristorante con il bancone imbandito di leccornie varie. Il ristorante è vuoto, ma i genitori di Chihiro decidono di mangiare comunque, con l'intenzione di pagare all'arrivo di eventuali padroni o camerieri. In realtà questa città apparentemente abbandonata è un complesso termale degli spiriti della natura, e la potente maga Yubaba, padrona del complesso, trasforma i due scrocconi in maiali, punendoli per aver mangiato il cibo sacro degli spiriti. A questo punto cala la notte, e gli spiriti ospiti delle terme cominciano ad affollare le vie; Chihiro si rende conto che sta lentamente diventando invisibile. La sua salvezza è l'incontro con Maestro Haku, apparentemente un ragazzo della sua età. Haku le fa mangiare un mirtillo proveniente dal mondo degli spiriti che rende Chihiro nuovamente tangibile e le permette di rimanere viva anche all'interno del complesso magico. Lui le spiega che l'unico modo per evitare di essere catturata dagli uomini di Yubaba è quello di trovarsi un lavoro all'interno delle terme: in questo sarà aiutata dall'"uomo delle caldaie". Per stipulare il contratto di lavoro, Chihiro viene privata del suo nome, e viene chiamata Sen (con un gioco di parole, o meglio di ideogrammi, non traducibile, vedi nota sotto); la mancanza del nome la rende incapace di abbandonare il mondo controllato da Yubaba. Inoltre Haku è suo amico solo di nascosto, perché ufficialmente è il braccio destro della maga Yubaba. Oltre a lui la bambina conosce altri personaggi e tutti in qualche modo diventano suoi amici, conquistati dalla sua semplice bontà. Lo scopo di Chihiro è quello di salvare i genitori, e per raggiungere il suo obiettivo, dovrà crescere interiormente. La sua crescita avviene sia tramite il duro lavoro a cui è sottoposta nelle terme, che con l'amore che nascerà tra lei e Haku. Sarà proprio questo legame, insieme al suo sconfinato altruismo e alla mancanza di avidità, che le permetterà di diventare più umile e coraggiosa e che alla fine le permetterà sia di aiutare Haku a ritrovare il suo vero nome sia di salvare i suoi genitori. Chihiro ricorda che lei ed Haku si sono incontrati prima: quando era più giovane era caduta in un fiume e sopravvisse perché era stata trascinata dalla corrente alla riva. Era stata salvata da Haku, che era lo spirito del fiume Kohaku. Dopo aver ricordato ciò, Chihiro dice ad Haku che il suo nome è Kohaku, e in questo modo lo libera dal controllo della maga Yubaba. Haku e Chihiro, appartenendo a due mondi diversi, si lasciano, con la promessa però di rivedersi. Usciti dal mondo magico i genitori non ricorderanno nulla, ma constateranno sorpresi che è passato più tempo di quello che pensavano, mentre la bambina conserva ancora sia il ricordo che le esperienze che un nastrino per capelli intessuto con tanto affetto dai suoi amici del mondo magico le hanno regalato.

Paul Zilio

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud


giovedì 16 dicembre 2010

L’angelo sterminatore - 16 dicembre 2010

L’angelo sterminatore (tit. or.: El angel exterminador)

Regia: Luis Buñuel

Messico, 1962, b/n

Durata: 95’

Cast: Silvia Pinal, Augusto Benedico, Enrique Rambal, Jacqueline Audere, Claudio Brook, José Bariera

Durante un ricevimento, un gruppo di facoltosi notabili messicani rimane misteriosamente intrappolato nel salone dove si svolge la festa. La costrizione, dovuta alla forzata prigionia, farà emergere il lato primordiale e ferino dei personaggi coinvolti, che si abbandoneranno, progressivamente, ad ogni sorta di abuso e licenziosa turpitudine.

Sognano di sognare (incubi) e di non riuscire a svegliarsi. Forse immaginano di essere svegli, quando in realtà dormono. O, chissà, forse sono le loro esistenze ad essere ancorate ad una dimensione di tenace ripetizione senza via di uscita. Proprio come gli incubi. I personaggi buñueliani si muovono sovente in questa zona di confine, dove non conta tanto l’indiscernibilità fra reale ed immaginario, quanto l’incedere di una quotidianità che ripete i meccanismi circolari del mondo onirico. È come se, paradossalmente, il sogno fosse la materia di cui è fatta la realtà, per capire la quale è necessario rivolgersi al suo doppio allucinato, immaginato, sognato appunto. La psicanalisi ed il surrealismo, di cui in un modo o nell’altro il regista aragonese è debitore, non fanno altro che indagare e rappresentare la realtà a partire dalle (impalpabili) coordinate tracciate dall’inconscio. E, visto che questo substrato originario, sommerso e spesso incontrollabile, è animato dalle pulsioni più oscure e selvagge, è, forse, proprio scavando nel cuore nero, negli abissi senza fondo dell’Es, che sarà possibile svelare, almeno in parte, l’essenza dell’umano.

Buñuel sembra osservare, curioso ed attento come uno scienziato, malizioso ed innocente, ad un tempo, come un ragazzino, i suoi personaggi muoversi come insetti sulla tela di un ragno – immagine che, peraltro, ricorrerà direttamente nel suo Cime tempestose (Abismos de pasión, 1953). Egli esprime quindi sia la sua fanciullesca passione per l’entomologia (che studierà anche, sia pure per poco, all’università), sia quella filosofica (di cui coronerà il percorso accademico, laureandosi nel 1924), sostenendo di essere “[…] interessato di più alla vita e alla letteratura degli insetti che alla loro anatomia, fisiologia e classificazione.” Inevitabile perciò il salto dagli insetti agli uomini, che egli tratta, però, proprio come se fossero mosche imprigionate in un recipiente di vetro.

Da questo punto di vista, L’angelo sterminatore è esemplare: un “esperimento” vero e proprio, ancora più esplicito di tutti gli altri lavori del regista, condotto su un gruppo estremamente selezionato di esseri umani – autorità, maggiorenti, esponenti delle classi più elevate, rappresentanti di quella che dovrebbe essere l’elite, il meglio della società – che, messi in una condizione di momentanea impotenza, quindi di prigionia ed assedio, regrediscono ad un animalesco e perverso stato di natura, pervasi dalle pulsioni più primordiali. Esattamente come accadrebbe a qualsiasi altro essere umano di qualsiasi ceto e cultura, se non in modo ancor più accentuato. Eros e Thanatos sono gli estremi, le cause dei tabù repressi e sedimentati nell’Es – sotto la vigilanza costante del Super-Io – nonché i motori che li innescano, in quanto propulsori di ogni pulsione. Quando l’uomo civile smarrisce la propria identità, dovendosi confrontare col proprio lato ancestrale e selvatico, essi tracimano, debordano, traboccano, travolgendo tutto ciò che incontrano al loro passaggio. Mentre intanto Buñuel se la ride, grazie al suo sguardo divertito, sospeso e ad un tempo impietoso. Lo sguardo del naturalista sorretto dalla vena ironica e grottesca del surrealista.

Giangiacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

giovedì 9 dicembre 2010

Gioved' 9 dicembre 2010 - Distretto 13 - Le brigate della morte

Distretto 13 - Le brigate della morte (Assault on Precint 13)

Regia: J. Carpenter

USA, 1976, durata: 90 minuti, colore.

E’uno dei titoli, se non il più emblematico, della rassegna.

Il punto di vista degli assediati ruota letteralmente intorno ad uno spazio vuoto e indecifrabile. Nello spazio si muovono a flussi gruppi sempre più numerosi di ombre simili agli zombie. Sembra non esserci una logica per questa contaminazione: una vera contaminazione di massa, anonima, che vuole uccidere, distruggere. Il cinema è assediato, proprio a partire dalla centralità del suo punto di vista, da un pubblico sempre più informe - si allude agli ectoplasmi del pubblico televisivo? - , da una violenza fine a se stessa determinata da un’alienazione che depriva i corpi di una soggettività sempre più anonima e contaminata. Lo spettatore si sente assediato da una “cosa” informe, ma ne è anche affascinato in quanto viene catturato in un vortice di violenza cieca e inarrestabile, quasi nichilista, innescata da una “massa” sibilante e “cattiva”. La distruzione è lo sfogo di un profondo senso di impotenza degenerante, che trasforma appunto i soggetti in una sorta di zombie senz’anima, senza speranza, senza vita.

Con questo scenario potremmo pertanto affermare che è il film più significativo della rassegna, proprio nella stretta relazione tra significato e significante, tra degrado simbolico e alienazione umana e degrado scenografico.

J. Carpenter, un cinefilo, viene ormai considerato un vero autore che riconosce in H. Hawks il suo maestro. Questo film, una sorta di rivisitazione del western, cita “Un dollaro d’onore”; infatti, per firmare il montaggio Carpenter usa lo pseudonimo di John T. Chance che era il nome del personaggio interpretato da John Wayne.

Autore dicevo, nonostante per un lungo periodo sia stato considerato un regista di “B-movies”, del cinema indipendente americano, anche se poi ha partecipato a delle grosse produzioni. Anarcoide molto vicino al cinema di Siegel e Corman: i suoi film, quasi tutti, sono stati prodotti a basso costo mantenendo un punto di vista autonomo ed evidenziando nel tempo come il suo cinema sia più politico di tanto cinema dichiarato tale. Certo gli scenari rappresentati sono post - apocalittici, spesso girati nella periferia di Los Angeles così da privilegiare il genere “horror”, anche se questa attenzione tende di più allo smontaggio del genere o dei generi affrontati.

“Horror come rivelazione. E così l’orrore diviene forma notturna di sopravvivenza dell’uomo-massa rispetto alle leggi diurne che lo hanno espropriato della sua soggettività e della sua fantasia gettandolo in ben più vasto soggetto e ben più profonda fantasia.” (da Segno Cinema n° 3, 1982, A. Abruzzese: “Segni certi di inquietudine”).

Nello spazio notturno, metropolitano, tutto sembra in superficie normale, tutto sembra scorrere, la stessa musica insinuante scorre e prepara uno sfondo in cui predomina un senso di vuoto, le persone assomigliano a degli esseri svuotati. La musica in quasi tutti i suoi film è stata scritta da lui stesso ed è una componente importante perché, ripeto, prepara uno sfondo predestinato e ineluttabile nella sua ripetitività. Lo stile stesso gioca nel buio, genera una scrittura apparentemente superficiale, secca, in cui il montaggio, come nel cinema classico, diventa quasi invisibile e fluttuante come i corpi che nel film spariscono, scompaiono letteralmente dalla vista.

Come nel film “1997: fuga da New York”, anche qui assistiamo quasi in tempo reale - inizia in piena notte e termina nella notte seguente - all’agguato teso da una banda di teppisti assassini.

Dalle radio della polizia veniamo informati dell’aumento vertiginoso della criminalità in alcuni quartieri di Los Angeles. Il commissariato di polizia, che deve essere trasferito, viene assediato da questi fanatici. Dentro ci sono un tenente di colore, due funzionarie, due malviventi in guardina di cui uno, Napoleone Wilson, condannato a morte e un pacifico signore al quale i teppisti hanno fatto fuori una figlia, una bambina e proprio per questo si trova in stato di shock tanto da non riuscire a spiaccicare alcuna parola. Ci troviamo quindi di fronte a un campionario umano di drop - out che devono lottare per la propria sopravvivenza fino alla fine non senza perdite umane. E nonostante l’arrivo della polizia che li salva rimane un senso di vuoto, nello sfondo surreale e quasi metafisico della musica.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

A cura di Paul Zilio

giovedì 2 dicembre 2010

Gli Invasati (The Haunting) - 2 dicembre 2010

Gli Invasati (The Haunting)

Regia: Robert Wise

Anno 1963, GB-USA

Interpreti: Julie Harris (Eleanor), Claire Bloom (Theodora), Richard Johonson (dott. Markway), Russ Tamblyn (Luke, l’erede), Lois Maxwell (signora Grace), Fay Compton

Il dottor Markway, esperto di parapsicologia, riunisce in una vecchia villa maledetta due donne, Eleanor e Theodhor, e un uomo, l’erede della tenuta, per studiare l’attività paranormale del luogo. La casa progressivamente si rivela viva e abitata da oscure presenze, e tutto sembra ricondurre a tragici eventi risalenti a molti anni prima. Una delle protagoniste viene in qualche modo rapita nel cerchio di quegli eventi passati, la sua debole mente, afflitta da sensi di colpa, si fa sempre meno lucida.

La paura e l’inquietudine sono generate da questa ambiguità: come in “Turn of the screws” di James, non è facile discernere gli eventi reali da quelli frutto della mente instabile della protagonista. La raffinata regia di Wise evoca l’orrore senza mostrarlo, inquadrando profili di statue, ghirigori che adornano il muro e sembrano volti umani, finestre come se fossero occhi, corridoi labirintici, ombre. Non si tratta solo di chlicè da genere gotico. Wise ha fatto apprendistato come montatore per la RKO, la famosa casa produttrice americana di film di genere (spesso veri e propri gioielli), e ha curato il montaggio di “Citizen Kane”. Di qui la tecnica che gli consente di realizzare invenzioni visive audaci, ed esemplari per molto cinema a venire (si pensi al recente “Shutter Island” di Scorsese), angolazioni e movimenti di camera che di nuovo suggeriscono quell’ambiguità di cui si è detto. Tra le tante si può ricordare la scena in cui Eleanor di notte, spaventata da rumori che vengono dal corridoio pensa di stringere la mano dell’amica Theodor, che invece è coricata dalla parte opposta della stanza. O quella della porta che si deforma. Oppure il magistrale flashback iniziale, in cui si susseguono tre morti violente. In definitiva si tratta di una delle più grandi ghost story girate, al cui impatto concorre non da ultimo l’uso dei rumori e delle musiche stranianti di Humphrey Searle.

Il film è tratto dal un romanzo di Shirley Jackson “The Haunting of hill hause” (1959), e di recente ne è stato fatto un indegno remake firmato da Jan De Bont.