domenica 22 novembre 2009

La giusta distanza

Di Carlo Mazzacurati. Con Giovanni Capovilla, Ahmed Hafiene, Valentina Lodovini, Giuseppe Battiston, Roberto Abbiati, Natalino Balasso, Stefano Scandaletti, Mirko Artuso, Fabrizio Bentivoglio, Marina Rocco, Ivano Marescotti

Drammatico, durata 106 min. - Italia 2007


La giusta distanza è ambientato in un paesino immaginario, Concadalbero, posto alle foci del Po e racconta un’umanità immobile e per certi versi grottesca, apparentemente accogliente, che determinerà fatalmente la sorte dei tre protagonisti. Questo è il mondo rappresentato attraverso una trama gialla. Nel paesino arriva, dalla città, la nuova maestra Mara (interpretata da Valentina Lodovini) creando inquietudine in Hassan (Ahmed Hafiene), meccanico tunisino stimato e rispettato in paese, e curiosità in Giovanni (Giovanni Capovilla), diciottenne al primo incarico per “Il Resto del Carlino”. Nasce così la storia d’amore fra Hassan e Mara che si risolverà in tragedia. Per Mazzacurati, la “giusta distanza” è quella che un giornalista dovrebbe saper tenere tra sé e la notizia: non troppo lontano da sembrare indifferente, ma nemmeno troppo vicino, perché l’emozione, a volte, ti può abbagliare. Solo infrangendo tale regola Giovanni ristabilirà la verità e riporterà la giustizia in un paese (l’Italia) dove il conformismo detta le regole della vita sociale.

I tre attori sono alla loro prima prova come protagonisti e Giovanni Capovilla alla prima prova in assoluto. Fra gli altri attori spiccano Fabrizio Bentivoglio, il capo redattore, e Giuseppe Battiston, il ricco, in due ruoli macchietta terribilmente veri.


Il cinema di Carlo Mazzacurati racconta di gente comune, spesso sfortunata, di persone estranee al lusso ed attaccate ai gesti concreti, un mondo marginale che include anche chi ce l'ha messa tutta e non sempre ce l’ha fatta. Secondo il Morandini “.. Mazzacurati fa parte di quel gruppo di cineasti che percepisce la realtà presente del paese con uno sguardo dotato di lenti bifocali: riesce a dare voce e corpo ad un cinema di vita provinciale, ovviamente localistico in cui si respira l'attaccamento alle piccole cose ma non solo. Questi mondi circoscritti che vivono di fianco alle realtà metropolitane diventano anche lo spazio in cui si innalzano le voci di tutti gli uomini, uniti in una condizione universale che non si scorda di nessuno, neanche dei perdenti.”


Con “La giusta distanza” Mazzacurati ritorna a vent’anni di distanza nei luoghi di “Notte italiana” il suo primo lungometraggio. Dice Mazzacurati: “Ci sono posti in cui il presente sembra arrivato solo in parte. Concadalbero, il paese immaginario, ma assolutamente plausibile in cui questa storia è ambientata, è esattamente questo, un microcosmo alla periferia della realtà. Un luogo anonimo, misterioso, struggente.

Siamo nel nord Italia, in quel lembo di terra che nelle cartine geografiche sembra sprofondare nel Mar Adriatico assieme alle ramificazioni arteriose del Po nel suo stadio di Delta. Ma potremmo anche essere in una piatta area della campagna francese o in un qualsiasi piccolo centro agricolo del middle west americano, o in Argentina, e non credo che la storia cambierebbe molto. Torno volentieri per la terza volta, in questo luogo da cui sono partito vent’anni fa con il mio primo film: “Notte Italiana”. Mi interessano i mutamenti, ma anche il senso di fissità e immobilità di questa terra, la sua vastità e la solitudine che evoca.

Per me è come uno strano teatro di posa all’aperto in cui, ogni volta, posso inventare un mondo. I tre ruoli principali del film sono interpretati da attori alla loro prima esperienza da protagonisti. Avevo bisogno di creare una totale identificazione tra loro e i personaggi. In parte lo si potrebbe definire un giallo: c’è un morto, anzi due, qualcuno che indaga, un colpo di scena… ma, per me, è soprattutto il ritratto inquieto di una piccola comunità. Il tentativo di fotografare, anzi radiografare il sistema nervoso di un paese collocato, appunto, nell’Italia del nord in questi tempi difficili. Forse il tema del film è “il male” che, come sempre, tutti tentiamo di collocare fuori da noi. Qui “il male” avvolge tutti, compresa la voce narrante. Durante le riprese, ma anche al montaggio, abbiamo cercato di non forzare nulla, ho accettato gli imprevisti come variazioni che arricchivano. Ho atteso sempre che un senso di autentico entrasse nelle scene e le orientasse. Quel che più mi premeva era trovare un mondo e dargli vita. Oggi che il film è finito, ciò che più mi tocca è la sensazione che questo mondo esista e che preceda e vada oltre l’orizzonte del nostro racconto.”


A cura di Giuseppe Esposito

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud




mercoledì 18 novembre 2009

La donna del fiume

Regia: Mario Soldati

Italia, 1955
Interpreti principali: Sofia Loren, Lise Bourdi, Gerard Oury.
Soggetto: E. Flaiano e A. Moravia. Sceneggiatura: M. Soldati, G. Bassani, P.P. Pasolini e F. Vancini.
Genere: drammatico

Non è certo una delle prove migliori o più interessanti di Soldati, personaggio eclettico che ha cominciato a lavorare nel cinema più per necessità che per passione; comunque l’elemento che risalta, oltre a una prosperosissima, (come una polena), Sofia Loren, è il paesaggio del Polesine, all’incrocio tra le province di Ferrara e Rovigo. Luoghi carissimi al regista anche perché nello stesso periodo aveva cominciato a produrre una serie televisiva intitolata “Viaggio nella valle del Po” (1955-56).
Afferma M. Soldati: “La donna del fiume ? Non me ne parlate, quando incontrai Ponti mi disse: Voglio il film con Sofia Loren, ci dovete mettere la motocicletta, ci dovete mettere il ballo, ci dovete mettere il bambino che muore, tutto deve finire male, anzi deve finire bene, lei deve essere madre, lei deve essere attrice, lei deve andare in bicicletta, lei deve…” Anche questo film è frutto di gravissimi e pesantissimi compromessi, di vero, di vivo non c’era che il paesaggio, l’ambiente e credo che questo risulti anche nel film. Io sono stato chiamato solo all’ultimo momento, come uno dei tanti ingredienti che Ponti voleva mettere per lanciare la Loren”.
“La donna del fiume, nacque da alcuni miei documentari e fui coinvolto in questa operazione proprio per questo. Ricordo che spesso Soldati, mentre facevamo dei sopralluoghi, mi chiedeva dove avevo girato una determinata scena e io ce lo conducevo perché lui era deciso ad ambientare in quel posto una particolare sequenza….se uno legge l’elenco dei collaboratori resta sbalordito, perché il soggetto originale era di Moravia e Flaiano, la sceneggiatura di Bassani, Pasolini, Basilio Franchina, me e un altro che ora non ricordo, la regia di Soldati. Insomma una rosa di nomi eccezionale. La collaborazione fu molto piacevole. Ero emozionantissimo, perché quello era il mio primo contatto con il mondo del cinema industriale, con il grande produttore, con il grosso regista.” (Florestano Vancini).

Trama: comunque il racconto di taglio popolare è ben costruito. E come in altri film ambientati in… zona, s’affida a una commistione geografica, tra le due province di Rovigo e Ferrara.
Nives, prosperosa e fiera ragazza lavora alla marinatura delle anguille nelle valli di Comacchio. Viene sedotta da Gino, sorvegliante e contrabbandiere, che la respinge nonostante sappia che la ragazza aspetta un figlio suo. Lei lo denuncia, e va a tagliar canne nel Polesine. Il bimbo nato nel frattempo, annega. Durante il funerale del bimbo, il seduttore si costituisce e chiede a Nives, umilmente, di attenderlo.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
Paul Zilio

domenica 15 novembre 2009

Il disco volante

Regia: Tinto Brass

Italia, 1965, durata 94 minuti, b/n

Interpreti principali: Alberto Sordi, Monica Vitti, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano.continua»

Genere: commedia.

Qualcuno potrebbe pensare, non conoscendo la biografia di Tinto, che “c’azzecca” questo regista in questa rassegna ? Eppure nella sua ormai cospicua filmografia , i suoi primi lavori avevano un carattere sicuramente anarchico (vedi “Chi lavora è perduto”) e avevano uno spirito di rivolta, di rabbia e di rifiuto di ogni stabilizzazione sociale, ideologica e istituzionale che lo faceva apparire diverso da tutti gli altri esordienti di quel periodo, anche se Goffredo Fofi nel 1966 affermava “… i Brass ed altri che dimostrano la loro vuotezza e la loro profonda mancanza di un discorso convinto da tentare, scialbi pseudoautori quali sono, pronti ad ogni copertura ideologica per mascherare la loro mancanza di scrupoli…”procacciandoci” (n.d.r.) divagazioni progressiste-democratiche o esercitazioni di bello stile…”.

Ma questo film, secondo lungometraggio, appartiene ancora alla prima fase suddetta, ed è un’opera di tutto rispetto, per molti versi inquietante e profetica, per altri dotata di umori e di uno stile sconosciuti nel panorama della commedia. Nel 1966 la svolta, la carriera segue un suo cursus produttivo che mostra un assorbimento totale del regista nella sfera erotica fino agli estremi sado-masochisti del porno-soft. Però l’autore in “stricto sensu”, non è certamente uno sprovveduto, in quanto ottimo professionista (vedi: “L’urlo”, “Dropout”, “Salon Kitty”, “La vacanza”, “La chiave”, “Snack Bar Budapest”), anche se il suo impegno scema fino alla trivialità più gratuita.

Perché l’inserimento di quest’opera nella rassegna sul territorio “Veneto in film” ? Prima di tutto perchè è un film che ci riguarda da vicino, in quanto è stato girato ad Asolo e nella campagna circostante; alcuni luoghi si possono riconoscere ancora oggi chiaramente, a volte invece lo sfondo risulta sfumato e poco definito.

Alcune battute e rilievi sul malcostume veneto ricordano il film di Germi “Signore e signori”; il disco volante è una grottesca satira sull'arretratezza di un'Italia provinciale dedita all'alcolismo e sulla sua assenza di moralità in tutte le classi sociali, dalla nobiltà decadente alla borghesia ipocrita e perbenista.

Il film è stato prodotto da Dino De Laurentiis il quale, dopo aver sottoposto la sceneggiatura di Rodolfo Sonego a maestri come Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli, volle mettere alla prova il giovane regista veneto per la prima volta alle prese con una produzione non indipendente.

Da sottolineare l’interpretazione di Alberto Sordi (non sempre credibile come carattere veneto), che qui impersona ben quattro personaggi.

Trama: un disco volante plana in un paesino, e il brigadiere dei carabinieri deve interrogare vari testimoni; tra questi una contadina piena di figli che è riuscita a catturare un marziano “vendendolo” al proprio padrone. Il marziano viene ucciso dalla madre dell’uomo che viene poi spedito in manicomio. L’interrogatorio convince il carabiniere che nulla è accaduto e che tutti sono dei visionari.


Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Paul Zilio

venerdì 6 novembre 2009

Signore & Signori


Regia: Pietro Germi

Italia, 1965, durata min. 108, B/N

Interpreti: Alberto Lionello, Gigi Ballista, Gastone Moschin, Virna Lisi, Olga Villi, Franco Fabrizi, Nora Ricci, Quinto Parmeggiani, Beba Loncar, Giulio Questi, Gia Sandri, Alberto Rabagliati, Gustavo D’Arpe, Moira Orfei, Elia Guiotto, Patrizia Valturri, Carlo Bagno, Aldo Pugliesi, Virgilio Gazzolo, Antonio Acqua, Sergio Fincato


Tre storie ambientate nella medesima città: Toni Gasparini (Lionello) confessa al medico (Ballista) di essere impotente per fargli abbassare la guardia e conquistarne la moglie (Loncar); un marito schiavizzato (Moschin) da una moglie ossessiva (Ricci) spera di trovare la libertà grazie all’amore di una cassiera (Lisi); un contadino (Bagno) accetta per soldi di non denunciare i ricchi borghesi (Fabrizi, Lionello, Parmeggiani, Guiotto, Questi) che hanno approfittato della figlia minorenne (Valturri).

Dopo l’immersione nel costume siciliano, Germi concentra il suo caustico sguardo sulla società settentrionale e sceglie, quanto mai emblematicamente, un’imprecisata ma riconoscibilissima Treviso per affondare la lama nei vizi privati, nell’ipocrisia, nel cinismo, nel perbenismo tutto cattolico della borghesia di provincia, veneta in particolare, colta nel momento epocale del boom economico. Germi è spietato e sarcastico, totalmente immune dalle indulgenze, complicità, compiacenze che spesso si trovano nella commedia all’italiana.

Soggetto di Luciano Vincenzoni che si basa su fatti reali o addirittura autobiografici. Sceneggiatura di Age, Scarpelli, Vincenzoni, Germi. Del non accreditato Flaiano l’idea di abbandonare la tipica struttura ad episodi: i protagonisti di ciascuna delle tre vicende emergono da un parterre di personaggi che in altri momenti ricoprono ruoli secondari. Il film trova così una sorta di continuità narrativa, un’unità di luogo e di contesto sociale che finiscono con l’accentuare la chiusura claustrofobica di una società rappresentata come gretta, narcisista, autoreferenziale e, in ultima istanza, “amorale”, dalla quale non sembra possibile alcuna reale via di fuga.

Palma d’oro al Festival di Cannes.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Renato Carlassara