martedì 15 dicembre 2009

Senso


Senso

Regia: Luchino Visconti

Italia, 1954, durata 115 min., colore

Interpreti: Alida Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Heinz Moog, Rina Morelli, Marcella Mariani, Sergio Fantoni.

In una Venezia ottocentesca, sotto il dominio austriaco, il patriota conte Ussoni (Girotti) sfida a duello il tenente Franz Mahler (Granger) che ha insultato gli Italiani. Livia (Valli), di sentimenti antiaustriaci, moglie insoddisfatta del conte Serpieri, avvicina Mahler per intercedere in favore del cugino Ussoni e se ne innamora follemente, giungendo a consegnargli i soldi destinati ai patrioti italiani. Ma dopo l’estrema degradazione arriverà la vendetta.

Dalla tutt’altro che felice novella Senso di Arrigo Boito, Visconti trae uno dei più straordinari film di ambientazione risorgimentale. Lo stesso regista ammette di essere stato attratto dal carattere di “eccezionalità” della storia d’amore tra due amanti stranieri e nemici. Tuttavia, mentre la novella si limita a sondare alquanto superficialmente il coacervo di torbide passioni e meschine viltà, affidando l’effetto drammatico alla ricerca di gesti smisurati, reazioni illimitate, relegando il contesto storico e sociale ad una condizione di sfondo sostanzialmente neutro, Visconti cerca una profonda organicità fra i caratteri dei protagonisti e l’ambiente, così da arricchire l’avventura individuale facendola interagire con la vicenda collettiva, al punto che “è la disfatta militare, la tragedia corale di una battaglia perduta, che prende il sopravvento sulla misera fine di un’avventura d’amore”. Solo così il film può essere visto come la grandiosa messa in scena della “crisi di una società, quella nobiliare, che agisce a fianco della Storia senza potervi partecipare” e può vantare un respiro epico che difficilmente a Visconti stesso è riuscito di ottenere. Il personaggio del conte Ussoni, che non esiste in Boito, è uno dei più evidenti elementi del film funzionali al necessario connubio fra la melodrammatica vicenda privata di Livia e Franz e la parte storica emblematicamente e sontuosamente rappresentata dalla ricostruzione della sconfitta sul campo di battaglia di Custoza.

La ricerca di “equilibri impossibili” è una delle chiavi di lettura più potenti, non solo del film, ma di tutta l’opera di Visconti. Epica e melodramma, estetismo e razionalismo, decadentismo e storicismo trovano in questo film equilibrio e coerenza, anche da un punto di vista strettamente formale. La colonna sonora si sviluppa tra il melodramma romantico di Verdi e il tardo romanticismo di Bruckner; l’allestimento del set si affida ad una Venezia autentica quanto non lo è mai stata o alla riproposizione pittorica delle atmosfere realistiche di Lega e Fattori o trasfigurate di Hayez.

Fotografia magistrale di G. R. Aldo, morto improvvisamente durante le riprese e sostituito da Robert Krasker e Giuseppe Rotunno.

Sceneggiatura che vede comparire il meglio, non solo italiano, della scrittura per il cinema: oltre allo stesso Visconti, Suso Cecchi D’Amico, con contributi di Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Giorgio Prosperi e, per i dialoghi, Tennessee Williams e Paul Bowles.

Assistenti alla regia Francesco Rosi e Franco Zeffirelli.

Costumi di Piero Tosi.


Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Renato Carlassara

mercoledì 9 dicembre 2009

Porcile

Regia: Pier Paolo Pasolini

Fr/Italia, 1969, durata 98 min, colore

Interpreti: Pierre Clementi, Jean-Pierre Leaud, Anne Wiazemsky, Alberto Lionello, Marco

Ferreri, Franco Citti, Ugo Tognazzi, Ninetto Davoli


Porcile si articola in due episodi tra loro intrecciati. Nel primo, ambientato in un’epoca imprecisata (forse il Messico del ‘500) e il cui set naturale è l’Etna, un uomo (P. Clementi) si dà al cannibalismo e insieme ad un occasionale compagno aggredisce i malcapitati viandanti per nutrirsene. E’ questo un atto simbolico di rivolta, di “anarchia apocalittica” come si evince dalle ultime parole del protagonista quando, ormai catturato, viene condannato ad essere dato in pasto alle fiere: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia”. Al primo episodio storico e “barbarico” si intreccia il secondo moderno e tedesco, girato nella villa Pisani di Stra (VE).


L’umore malinconico e gli strani comportamenti di Julian (J.P. Leaud), figlio di una famiglia di grandi industriali, sono fonte di preoccupazione per i genitori e per Ida, la ragazza, aderente al movimento studentesco, che lo ama non ricambiata. Il padre del ragazzo verrà ricattato dall’avversario industriale, un ex-criminale nazista, venuto a conoscenza delle inusuali frequentazioni di Julian nel porcile della tenuta e di quel che di scandaloso nascondono. Attraverso un montaggio parallelo, le due storie giungono contemporaneamente ad un epilogo luttuoso. Morale (secondo le parole dello stesso autore): “La società –ogni società- divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti: i figli devono essere obbedienti e basta”.

Come Teorema (1968), anche Porcile è un film-saggio, di intenzioni espressamente polemiche e ugualmente pessimista nelle conclusioni. Pasolini vi espone le proprie riflessioni sui temi della diversità e dell’intolleranza, del nuovo capitalismo edonista, dell’autoritarismo e del trasformismo della classe borghese e dei padri (qui da criminali nazisti a ben accetti borghesi). Riflessioni che, all’inizio degli anni ’70, sarebbero confluite nella sua attività di giornalista (vedi “Scritti corsari”) e avrebbero trovato un’ultima drammatica espressione in Salò o le 120 giornate di Sodoma.


Nel saggio “Empirismo eretico”, Pasolini elabora, ricorrendo alla linguistica, l’importante distinzione tra cinema di prosa e di poesia. Nel cinema di prosa (es. Ford), è la storia raccontata ad avere importanza e la regia è funzionale al coinvolgimento dello spettatore verso ciò che accade. Il cinema di poesia (es. Antonioni, Godard) vi si distingue per l’impiego nuovo degli elementi filmici (regia, montaggio, fotografia…) finalizzato ad esprimere la soggettività dell’autore, spesso in collisione con la normale coerenza spazio-temporale e comunque con la normale percezione del pubblico: la narrazione è un pretesto per l’emersione dell’interiorità del regista e della sua personale visione del mondo. A detta dell’autore, Porcile sarebbe, tra i suoi film, l’unico esempio di questo cinema di poesia, insieme (forse) a Uccellacci e uccellini (1966). Troviamo riscontro a questa affermazione se guardiamo alla particolare struttura narrativa “raddoppiata” dei due film: in entrambi il senso dell’opera, altrimenti oscuro, scaturisce dalla combinazione degli episodi. In Porcile è rilevante (e straniante) la differenza dei registri stilistici adoperati: l’uno aulico e severo, l’altro “geometrizzante” e grottesco, con richiami espliciti a Grosz e Brecht. Nel II episodio alcuni dialoghi sono in rima; il I episodio è invece quasi interamente muto. La distanza dal cinema “classico” (o di prosa) è netta: Pasolini non permette allo spettatore di essere ingenuo e la difficoltà del suo cinema sta proprio in questa sua intransigenza.


Ma Porcile è sopratutto una storia di solitudine: quella di chi non è in sintonia con il mondo in cui vive e difende strenuamente la propria diversità. L’ispirazione del film non deriverebbe tanto dal ricordo della contestazione del ’68, contro cui il Nostro si era scagliato nella celebre poesia Il PCI ai giovani, ma sembra piuttosto nascere dall’amarezza del poeta di fronte al disfacimento del proprio “sogno di una cosa”, ciò che ha amato e quello in cui ha creduto. La fine del mondo delle borgate, travolto dal nuovo corso storico, e la crisi dell’ideologia marxista sono due dei motivi di questa amarezza.


Nel film sono contrapposti due mondi: uno barbarico e antico, l’altro borghese e capitalistico. Si tratta di una contrapposizione ricorrente nell’opera di P.P.P. Ma qui, nonostante la differenza tra l’aperta rivolta del personaggio di Pierre Clementi e l’incertezza amletica di Julian, quello che conta è l’eterno ripetersi della medesima repressione da parte della società, sia essa antica o moderna. In ombra, un terzo personaggio è spettatore del perenne scontro tra padri e figli, tra società repressiva e membri ribelli: è la classe contadina e sottoproletaria. “I contadini, per usare un linguaggio d’altri tempi, sono i personaggi positivi del film. […] Sono in grado di capire ciò che la borghesia non sa riconoscere, il mistero che le sfugge, il senso del sacro che, per essa, è puramente verbale”.

Buona visione!


Andrea Taccari

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

martedì 8 dicembre 2009

H. P. Lovecraft’s Road to L. – Il mistero di Lovecraft.


Regia: Roberto Leggio, Federico Greco

Italia, 2005, colore

Durata: 86’

Cast: Roberto David Purvis, Roberto Leggio, Federico Greco, Simonetta Solder, Fausto Sciarappa, Fabrizio La Palombara, Gianni Sparapan, Donatella Ceccarello, Valentina Lodovini


1997: Andrea Roberti, studente presso la cattedra di Storia delle tradizioni popolari di Padova, sta redigendo la propria tesi di laurea, fondata sull’ipotesi di una stretta contiguità fra le cosmologie e le mitologie create dallo scrittore nordamericano Howard Phillips Lovecraft e quelle che costituiscono l’orizzonte tematico ed ambientale della narrativa popolare veneta (polesana in particolare), nota come “racconti del Filò”. Il 16 ottobre dello stesso anno, in riva al Po, nei luoghi in cui tali tradizioni hanno trovato alimento e si sono tramandate, misteriosamente scompare.

2002: il regista Roberto Leggio scova, in una bancarella di Montecatini, un manoscritto in inglese firmato “Granpa Theo”, uno degli svariati pseudonimi usati da Lovecraft nella sua carriera. Si tratta di un diario di viaggio e sembra indicare, contrariamente a quanto sostenuto dalle biografie ufficiali, secondo le quali Lovecraft non si sarebbe mai mosso dall’America del Nord, la concreta possibilità che lo scrittore abbia viaggiato e soggiornato in Veneto, in prossimità del delta del Po, in una misteriosa località indicata come “L.”. In tale manoscritto si fa esplicito riferimento alla tradizione popolare del “Filò”.

2004: Roberto Leggio, insieme a Federico Greco ed a David Purvis, iniziano a lavorare ad un documentario che, nelle loro intenzioni, dovrebbe approfondire e confermare l’ipotesi del viaggio in Polesine di Lovecraft. L’ostilità della popolazione locale unita alla scoperta della scomparsa dello studente e ad una serie di inquietanti circostanze li condurranno all’interno del mondo chiuso e minaccioso della profonda provincia veneta, che tanto sembra avere in comune con quelli descritti dal “solitario di Providence”.

Caso più unico che raro di mockumentary (dall’inglese mock= falso e documentary= documentario) in cui la componente finzionale viene non di rado superata da quella veridica (con differenze sostanziali rispetto a predecessori più o meno illustri come F for fake di Orson Welles, 1974, Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, 1979 o The Blair Witch Project di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, 1999). In Road to L., alcuni degli avvenimenti descritti, soprattutto lo spunto di partenza, cioè il ritrovamento del manoscritto, hanno una loro radice di attendibilità. L’intenzione iniziale degli autori di verificare e quindi di documentare la loro ipotesi, vale a dire la ricerca di un tipo di verità intesa come mero fatto o come dato oggettivo, viene a scontrarsi con tutta una serie di elementi e variabili che ne modificano strutturalmente gli esiti inizialmente previsti. Nel mondo in cui entrano, i confini fra visibile ed invisibile, fra reale ed immaginario, divengono sempre più labili, indiscernibili. Il documentario che intendono realizzare[1] deve mutare per risultare verosimile, giacché la realtà con cui i nostri si scontrano lo è sempre meno. Solo il racconto di finzione, paradossalmente, sembra in grado di diventare testimonianza verosimile di una realtà che pare aver smarrito ogni coordinata di senso. In altre parole, non si può “documentare” il mistero se non trasfigurandolo.

Lo scambio fra realtà e finzione non è comunque l’unico presente né l’unico a rivestire un certo interesse al fine di sondare con una certa pienezza i temi evocati da quest’opera stratigrafica e complessa. Vi è anche quello fra due diverse, ma strettamente correlate, dimensioni del racconto: quella locale (il Filò) e quella universale (la trasversalità e la diffusione di miti e narrazioni con notevoli somiglianze strutturali ed archetipiche all’interno di comunità, luoghi e tradizioni distanti e molto spesso incomunicanti fra loro), in un’opera che per certi versi potrebbe anche essere vista come un saggio di mitologia comparata. Da questo punto di vista, non sarebbe nemmeno necessario dimostrare la venuta di Lovecraft in Polesine. Anzi, all’opposto e paradossalmente, volendo porre un confronto fra archetipi mitici così affini, ma partoriti da comunità incommensurabilmente lontane dal punto di vista spaziale, forse, nel caso specifico, sarebbe quasi auspicabile dimostrare il contrario. Elemento questo che equivarrebbe a dire che Lovecraft potrebbe non aver avuto alcun bisogno di visitare il Polesine per evocare un immaginario fantastico già del tutto simile al suo.

In stringente contiguità con il tema appena rimarcato si pongono altri due elementi: quello linguistico e quello xenofobico. Per ciò che attiene al primo, va sottolineato come tutto il film sia parlato in inglese (la lingua “universale” per eccellenza della contemporaneità, la lingua della globalizzazione nonché della colonizzazione culturale operata, ad ogni latitudine, dai paesi anglosassoni, in primo luogo dagli USA) ed in dialetto veneto (forma linguistica che è e non può che essere espressione di un luogo circoscritto a livello geografico, storico, culturale ed antropologico), o in un italiano connotato da un forte accento e da una strutturazione sintattica fortemente dialettali. È uno scambio che marca uno scarto, uno scambio ineguale, un dia-logos mancato. I due gruppi contrapposti nel racconto filmico, la troupe e la popolazione locale, faticheranno a comunicare, fino ad arrivare ad un atteggiamento di aperta animosità degli autoctoni nei confronti dei filmakers. In più, molto presto, anche all’interno della troupe scoppieranno dissidi, rancori e gelosie, anche se non legate alla lingua, in questo caso.

Per quanto riguarda invece l’elemento della xenofobia (dalle parole greche ksenos= straniero, estraneo, ospite e phobos= timore) esso risulta centrale innanzitutto per capire una delle cause primarie capaci di scatenare la potenza dell’immaginazione di Lovecraft: la paura dell’estraneo/straniero appunto. Si tenga presente che Lovecraft era un razzista convinto, un wasp che, una volta trasferitosi a New York per sposarsi ed in cerca di fortuna (senza mai trovarne molta, invero), fu obbligato ad avere contatti con le “razze” che lui giudicava inferiori: ispanici, italiani e niggers (letteralmente “negracci”) come lui stesso li chiamava nei suoi racconti. È da questo contatto forzato che si sviluppa in lui l’immaginario da cui trarranno origine le sue grandiose mitologie nonché tutta quella infinita serie di esseri mostruosi, nati da accoppiamenti ibridi, empi ed innominabili. E, si sa, niente riesce a creare paura più della paura stessa. L’elemento della xenofobia risulta peraltro assai importante per far luce sui moventi, le pulsioni e le reazioni che connotano il problematico rapporto con l’Altro in tutti quei sistemi chiusi, le comunità dell’entroterra veneto così come quelle della provincia americana, non fa differenza (locale ed universale ancora una volta si toccano), in cui chiunque venga da fuori, chiunque sia “foresto” (in un’accezione che accomuna il semplice forestiero allo straniero tout court) viene nel migliore dei casi guardato con sospetto, nel peggiore con sgomento.

Ecco che allora i volenterosi ragazzi della troupe si ritrovano catapultati in un universo da incubo che somiglia molto a quello descritto dallo scrittore di Providence. Volevano seguire le orme di Lovecraft e si ritrovano dentro ad uno dei suoi racconti o forse direttamente nel cuore del suo mondo immaginario, magari proprio là dove “[…] il morto Cthulhu attende sognando.”[2]

Gian Giacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud



[1] Documentario che comunque vedrà la luce più o meno contemporaneamente a Road to L. (col titolo: H. P. Lovecraft – ipotesi di un viaggio in Italia) e che ne costituisce di fatto un’appendice, un controcanto, un elemento utile per comprendere meglio la genesi dell’opera maggiore e non viceversa, come probabilmente era nelle intenzioni iniziali degli autori.

[2] Da H. P. Lovecraft, The Call of Cthluh, 1926.