giovedì 22 dicembre 2011

Ultimo tango a parigi (1972)



"Ultimo tango a Parigi" è considerato uno dei film più scandalosi del '900 ma, allo stesso tempo, è innegabile che sia stato uno dei più grandi capolavori del secolo scorso. Costitutivo, assieme a "Il conformista" e il successivo "The dreamers", della trilogia sulla capitale francese, il film di Bertolucci esce nel 1972 per poi essere proibito fino al 1987, innescando un succès de scandale che dura ancora.

Dopo il suicidio della moglie, il quarantacinquenne Paul (Marlon Brando), un americano trapiantato a Parigi, sembra aver smarrito ogni ragione per vivere. Vagando senza meta per la città, Paul incontra la ventenne Jeanne (Maria Schneider) in un appartamento in affitto in rue Jules Verne che i due casualmente si trovano a visitare insieme; scattano l'attrazione e la passione e i due sconosciuti hanno un rapporto nella casa vuota. Inconsciamente isolati nel loro appartamento, fra i due nasce una relazione di sensi nel corso della quale, ignorando del partner persino il nome, esplorano a fondo le rispettive sessualità.

Sin dall'incipit è concentrato il messaggio che Bertolucci vuole trasmettere: i titoli di testa sono disposti prima a sinistra e poi a destra di due dipinti di Francis Bacon, quello d'un uomo in T-shirt che, plasmato dall'angoscia, occupa un divano scarlatto, e quello di una donna dal volto tumefatto, posta su una sedia che sembra uno strumento di tortura. Finiti i titoli i due quadri si affiancano e comincia il film che, è bene sottolineare , è iniziato da un pezzo.
Anche questo è Bertolucci, cioè l'allusione, l'ammiccamento agli spettatori d'essai. La citazione colta di Bacon e l'aver concepito la scenografia principale di "Ultimo tango a Parigi",grazie all'immenso lavoro di Vittorio Storaro che costruisce una perfetta tavolozza cromatica secondo i colori(rosa e rosso) e le volumetrie del pittore (Tangò non è solo il ballo ma anche il colore arancione), significa annunciare a chi intende sia gli scopi della storia sia la poetica del regista parmense. Proprio il cinefotografo Storaro(che non ama definirsi direttore della fotografia), ha curato la fotografia di quasi tutti i film di Bertolucci da: "Il conformista"(1970) a "Il piccolo Buddha"(1993), permettendo allo spettatore di proiettarsi all'interno di quadri cromaticamente perfetti.

"Ultimo tango a Parigi" è appunto un film di atmosfere e di attori, giocato soprattutto sul volto e sulla fisicità magnetica di una celebre star, Marlon Brando. Questo Brando invecchiato con i capelli grigi un po' lunghi e un cappotto di cammello, si imprime in maniera indelebile nell'immaginario della generazione sessantottina e di quella immediatamente successiva.
Il film infatti ci parla degli anni dopo la rivoluzione, anche sessuale (quasi in antitesi con il precedente lavoro del regista "Prima della rivoluzione"), mediante i caratteri di Jeanne e Tom(un Jeanne-Pierre Leaud, attore-feticcio di Truffaut,che incarna il cinema veritè), mentre Paul, terzo polo del classico triangolo, rappresenta la memoria, la tradizione, il cinema dei padri.

L'appartamento di Rue Jules Verne è un luogo che non sembra collegarsi alla vita esterna. C' è da dire che il nome della strada non è casuale: Verne, infatti, scriveva riguardo il possibile, la fantasia, l'immaginazione e non riguardo la realtà.
Vuoto, oscuro, silente, remoto, l'appartamento (che sarà poi ripreso per il successivo "The dreamers") è come un utero, come la caverna di Platone, ma vi campeggia un "mostro", quei mobili accatastati in un angolo bianco, che evoca appunto la sostanza baconiana e orrorifica dell'apologo. Jeanne e Paul sono soli e sanno di esserlo. Il loro rapporto pare cementato dalla paura innata di una solitudine che sarà irreversibile.

Segregati "in the box" i protagonisti si psicanalizzano a vicenda e per questo accantonano l'identità anagrafica, costruendone altre due, enigmatiche,vere e false allo stesso tempo.
Il senso del tempo infatti viene rimosso programmaticamente. Dentro quell'appartamento Jeanne e Paul ne fanno di cotte e di crude, liberano le pulsioni, sfrenano perversioni e istinti animaleschi, copulano felici o mortalmente soli (non è un caso che il loro primo rapporto sessuale avvenga in piano sequenza).
Lo studio della solitudine e delle sue anguste conseguenze sull'uomo è alla base del lavoro del regista. Devoto alla Nouvelle Vague, movimento cinematografico di fine anni '50 che promulgava la rottura con le tradizioni ed il cinema classico e che vide la partecipazione di cineasti del calibro di Truffault,Chabrol,Rohmer e Godard,il cinema di Bertolucci ne rimane positivamente influenzato. Inoltre, strizzando l'occhio ai canoni del post-moderno,il suo è anche un cinema citazionistico. Basti pensare a come il regista citi ancora "La voix humaine" di Cocteau e Rossellini, un esempio di solitudine filmata che evidentemente lo affascina. Quando Jeanne risponde al telefono dell'appartamento e Paul solleva la cornetta nella stanza accanto, senza articolare parola. O, ancora, quando Paul, a letto, narra a Jeanne il suo passato, replica una delle scene iniziali di "Ossessione" di Luchino Visconti, dove Gino, appena fatto l'amore con Giovanna, brevemente le racconta i suoi trascorsi e si mitizza La strategia di Bertolucci è proprio quella di imbrigliarci in un caleidoscopio di riferimenti, soprattutto extratestuali.

"Non voglio sapere nulla di te."

Questa frase implica il capovolgimento del paradigma della nostra società. Noi amiamo credendo di sapere tutto della persona che ci affianca. Ma per Bertolucci la passione non è legata alla conoscenza. Amore e desiderio sorgono, in questo caso, poiché non si sa nulla del partner. Quando uno dei due trasgredisce questa regola, la storia è destinata a finire.
Come conferma il regista (il cui film preferito è "La regle du jeu" di Renoir): "Ho sempre desiderato incontrare una donna in un appartamento deserto, che non si sa a chi appartenga, e fare l'amore con lei senza sapere chi è, e ripetere quest'incontro all'infinito, continuando a non sapere niente."

"Ultimo tango a Parigi", per stessa ammissione di Bertolucci, è "cinema-verità ricco", che rimembrerà nello spettatore i fasti della Nouvelle Vague.

(Recensione tratta da: http://www.filmscoop.it)

giovedì 15 dicembre 2011

15 dicembre 2011 - L'amico di famiglia


L’amico di famiglia.

Regia: Paolo Sorrentino

Italia, 2006, durata 90 minuti, colore

Per rappresentare l’avarizia, la scelta de “L’amico di famiglia” non è stata difficile, anche se, per altri versi, un film come “Greed” di Erich Von Stroheim meriterebbe la Palma D’Oro. Ma Paolo Sorrentino è un autore, un vero autore, peraltro italiano e, a mio avviso, di straordinario talento.

Egli ha ormai raggiunto una notorietà internazionale, dapprima con l’opera su Giulio Andreotti: “Il divo” premiato a Cannes nel 2008. Presidente della giuria un certo Sean Penn che in quell’occasione gli disse di essere pronto a fare un film con lui (“Quando vuoi, dove vuoi, io ci sarò”). Notorietà poi confermata con un originalissimo “road movie” girato negli USA proprio con Sean Penn: “This must be the place”, la sua opera più recente e in parte incompresa o considerata troppo ambiziosa.

Ma la stoffa c’è; l’autore è pervaso da una sottile e spesso allegorica immaginazione, attraverso la quale spiattella con estrema lucidità un mondo sempre più degradato, cinico e disilluso. Da questo punto di vista infatti la prima parte della sua filmografia risulta estremamente coerente: da “L’uomo in più” a “Le conseguenze dell’amore”, passando appunto attraverso “L’amico di famiglia” fino a “Il divo” possiamo trovare quella struttura circolare in cui emerge la centralità di un personaggio attorno a cui tutto precipita o cambia.

Nel film in oggetto, presentato a Cannes nel 2006, il protagonista impersonato da Giacomo Rizzo (interpretazione stratosferica la sua) incarna perfettamente la figura dell’usuraio. Una maschera laida, morbosa, solitaria, un “monstrum”, costretto a vivere con una madre disabile, che approfitta, attraverso l’uso dei soldi, delle debolezze e delle difficoltà altrui travestendosi da benefattore. Gode del suo potere, controlla, spia e registra un malessere diffuso, che egli stesso assorbe e attraverso il quale può giustificare la sua filosofia ove tutto, davvero tutto, può essere misurato con il denaro; denaro utile non per condurre una bella vita - l’aspetto estetico è del tutto inconcepibile nel suo mondo - ma solo per il gusto di poter decidere della vita degli altri. Perseguire e mantenere questo fine richiede sacrificio, non bisogna mai lasciarsi travolgere dai sentimenti, dalla pietà o, peggio, da un senso di carità; ci si deve trattenere dal consumo, dal desiderio, (pure illusioni ?) e perciò si conduce una vita assai meschina, nella quale ciò che rimane è la divorante volontà dell’accumulo che aumenta smisuratamente l’ avidità e dunque mai si placa. La politica del protagonista è fatta di piccoli passi e nessuna voglia di rischio, eppure quello che sembra essere il suo migliore amico lo provocherà, gli farà scattare una molla che lo porterà al disastro. Le conseguenze dell’amore, infatti, e dei sentimenti più in generale.

Il punto di vista del nostro autore perciò risulta alquanto disilluso e disincantato. Una fosca tinta pessimistica, di un triste nichilismo avvolge le sue storie e l’ambiente in cui si viene immessi e che ci circonda risulta, di scorcio o in totali, del tutto degradato, quasi unto, lercio. All’interno di questi scenari ci si presentano personaggi solitari, disperati, che sognano punti di fuga solo attraverso l’inganno o l’auto - inganno. La realtà è sudicia come il protagonista di questo film.

A cura di

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Paul Zilio

domenica 27 novembre 2011

Giovedì 1 dicembre Aguirre, furore di Dio





SUPERBIA

AGUIRRE, FURORE DI DIO (AGUIRRE, DER ZORN GOTTES)

Regia: Werner Herzog

Germania occidentale, 1972, colore

Cast: Klaus Kinski, Helena Rojo, Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling, Cecilia Rivera

Anno di grazia 1560. Una spedizione di conquistadores spagnoli, capeggiata da Gonzalo Pizarro, discende le Ande alla ricerca del mitico El Dorado. Una pattuglia esplorativa viene inviata in avanscoperta, lungo il fiume Urubamba. Il capo di questo manipolo, Pedro de Ursua, verrà ben presto spodestato dall’ambizioso e feroce Lope de Aguirre, che intende procedere libero da ogni legame istituzionale. Intanto, la foresta ed il grande fiume aspettano.

Ogni gesto espressivo e significante, cinematografico e non, notevole o meno, risente della tensione originaria dell’uomo verso un orizzonte di stabilità e permanenza, in grado di trascendere il suo destino di contingenza, di parzialità, di finitezza, consentendogli di sfiorare, in un modo o nell’altro, l’immortalità. La filosofia e le arti figurative nascono anche, forse soprattutto, dall’esigenza di fermare il tempus edax, il tempo divoratore, per individuare un principio, da un lato, o creare un manufatto, una forma od un’immagine del mondo, dall’altro, capaci di persistere durevolmente ai mortali assalti di Chronos. Con la nascita e lo sviluppo dell’arte della fotografia e poi con la capacità di riprodurre la realtà nel suo dinamismo, nella sua durata, attraverso l’immagine in movimento filmica, sembrano estendersi per l’uomo non solo la possibilità di bloccare il divenire ed esorcizzare la decadenza delle cose e la loro fine, ma anche l’illusione di accarezzare l’eterno. Oltre a ciò, l’opportunità di registrare tutto il visibile in immagini (fisse od in movimento) crea un’illusione ulteriore e forse ancor più vana: riuscire a carpire l’essenza del mondo in effigie e con ciò la sua verità più riposta ed assoluta. Sembra essere quindi proprio la superbia il peccato capitale del cinematografo, l’ambizione di poter somigliare a Dio o di possedere alcuni dei suoi attributi.

In questo contesto, risulterebbe sin troppo semplice individuare in Werner Herzog e nel suo cinema alcune delle espressioni più compiute ed estreme di tale peccato. In realtà, ne siamo, per molti versi, agli antipodi, sia per ciò che concerne il suo atteggiamento, che per quello dei suoi personaggi centrali nei riguardi della realtà. Non vi è mai, da parte del regista bavarese, la supponenza o l’arroganza di chi ritiene di possedere una conoscenza esaustiva del mondo o dei mezzi della propria arte: la sua opera risulta quindi tutt’altro che una pacifica(ta) e stanca ripetizione di stilemi, asserzioni, schemi, eventi, meccanismi narrativi. Ciò che anima il suo percorso è il proporsi interrogativo, esplorativo di chi si apre all’essere delle cose, alla sua durezza, opacità e distanza. La sua vera sfida concerne l’atto di filmare, quindi il filmabile, come possibilità estrema dello sguardo dell’uomo di posarsi sui limiti altrettanto estremi del mondo, senza accontentarsi dell’immediata comodità del visibile. Gli artifici della finzione cinematografica vengono centellinati, dosati con cura e pazienza e mai abusati, in funzione di un estremo rispetto per l’arte cinematografica, che riflette una corrispondente assoluta devozione per l’essere e la sua complessità. Ecco allora delinearsi un cinema dove le iperboli tecniche, narrative, espressive, gli espedienti spettacolari, gli effetti sono ridotti all’osso, o del tutto assenti, e nel quale il vero spettacolo è costituito dall’inquietante magia della natura e dalla forza di quegli uomini che in essa, per essa e contro di essa si ritrovano a lottare, non per soggiogarla – sogno intenso e profondo, ancorché vano – ma per realizzare, sia pure imperfettamente, la loro più profonda essenza.

Aguirre, furore di Dio si colloca del tutto in questo solco, sia per quanto riguarda la lavorazione del film[1], che per ciò che attiene al suo incedere narrativo, espressivo ed alle personalità e psicologie dei personaggi. La superficie del racconto ci parla di una spedizione di conquistadores, venuti nel Nuovo Mondo per impossessarsi di ricchezze, territori e poteri temporali ed a portare con sé la propria concezione culturale, storica, sociale, religiosa, in una parola il proprio logos. E questo forse vale, in misura maggiore o minore, per la maggioranza dei personaggi del film, ma non per le due donne che partecipano alla spedizione né, ovviamente, per i nativi – perlopiù ombre senza volto in agguato nel folto della giungla – né soprattutto per Lope de Aguirre (uno straordinario, eccessivo, magnetico, perverso Klaus Kinski). I maschi bianchi colonizzatori sono troppo legati ad un retaggio percettivo e conoscitivo distante da quello che pervade l’ambiente in cui si inoltrano, un luogo in cui, come dice un indigeno catturato: “Dio non è riuscito a finire la sua creazione”. Sono estranei in terra straniera ed Herzog li coglie spesso a guardare ottusamente la natura lussureggiante ed impervia che li circonda, senza realmente comprenderla. Assai diverso è il discorso per le due figure femminili e per il protagonista. La prima delle due, Inez, la moglie del capo iniziale della pattuglia, Ursua, segue con coraggio il marito e silente lo accompagna dopo che viene ferito per ordine di Aguirre. Tutto sembra per lei cagione di stupore ed angoscia, sia ciò che la circonda, sia la ferocia del branco maschile. Ciononostante, la sua decisione ed il suo coraggio non vengono mai meno. Dopo l’impiccagione del consorte, una volta che il piccolo drappello prenderà nuovamente terra, si inoltrerà nel profondo della foresta, dove scomparirà; rassegnata alla propria sorte non solo di vedova in mezzo ad una soldataglia bavosa, ma soprattutto di essere umano che comprende che l’unica via per affrontare la natura ed il proprio destino è addentrarvisi. Figura speculare risulta l’altra donna, la giovanissima Flores de Aguirre, figlia del protagonista. Anche lei segue il suo uomo di riferimento, perennemente muta e dallo sguardo innocente e purissimo, come se tutto fosse un gioco sublime e terribile, dove gli esseri umani si uccidono, o muoiono a causa della loro sventatezza, dove ciò che è meraviglioso è anche mortifero e letale, dove il padre amato arriva a concupirla come sommo e blasfemo oggetto del desiderio.

Infine, ecco Aguirre/Kinski. Sia il personaggio che l’attore[2] incarnano al meglio l’atteggiamento e l’inclinazione del regista bavarese verso l’estremo, l’assoluto. All’inizio del film lo vediamo compiere gli stessi gesti ed azioni dei suoi pari o dei suoi soldati, dare ordini, maltrattare gli schiavi al seguito e marciare. Sono i suoi occhi a dirci che lui non è come gli altri. Quegli occhi sono rivelatori non solo dei suoi foschi e folli disegni, ma si fanno anche vettore di uno sguardo che, mano a mano che la narrazione procede, si distanzierà totalmente da ogni forma di comunicatività, per immergersi sempre di più nella dimensione selvaggia di quella regione, spettrale e ricca di vita ad un tempo, in cui non vi è spazio per le sovrastrutture e gli schematismi dell’uomo civilizzato, ma solo per la visione allucinata di un poeta filosofo, di un poeta guerriero. Di fatto il film è il percorso formativo di questo sguardo, che diviene manifestazione decisiva di un approccio radicalmente conflittuale del protagonista, sia con il suo intero retaggio di soggetto civilizzato, sia con il suo presente di uomo gettato nel cuore nero della terra. Aguirre è l’unico della spedizione che comprende la necessità di abbandonare totalmente le certezze acquisite dalla e nella cultura – anzi di doverle combattere ed annientare – per potersi finalmente confrontare con la dimensione sublime e terribile della natura nella sua epifania più completa ed originaria. Tale confronto non potrà che essere violento, totale e destinato al fallimento, in quanto è tracciato nel fato dell’uomo di dover lottare dentro e contro l’essere per affermare se stesso – ma soprattutto per riconoscere, comprendere e custodire il suo rapporto con l’essere stesso – e che in tale lotta sono inscritti la sconfitta, l’annientamento, la follia e la morte. Proprio in questo destino, però, è possibile individuare la vera grandezza dell’uomo ed il compimento ultimo della sua essenza: solo abbandonando le sue fragili sicurezze e la dimensione quietamente (ad)domestica(ta) del quotidiano, egli potrà finalmente addentrarsi nell’ignoto spazio profondo, nella dimensione a-temporale dell’attesa e della ricerca incessanti, quindi riappropriarsi della propria origine, che è anche il suo fine ultimo. Ecco che allora è anche possibile comprendere lo strettissimo rapporto, la corrispondenza, fra Herzog ed i suoi personaggi: veri e propri apolidi in un mondo ed una società nei quali stentano a riconoscersi ed aperti, protesi verso l’assoluto, lo sconfinato, lo smisurato, vale a dire ciò che atterrisce e sgomenta l’uomo e per ciò stesso lo attrae irresistibilmente.

Gian Giacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud



[1] A tal proposito, è sufficiente ricordare alcuni aneddoti ed episodi accaduti durante tale lavorazione: il fatto che Herzog abbia minacciato con un fucile Kinski, che voleva abbandonare il set, che le zattere utilizzate siano state costruite sul set stesso e, soprattutto, che le riprese siano state realizzate seguendo pedissequamente l’incedere cronologico del racconto – caso quanto mai raro al cinema.

[2] Kinski è l’attore per eccellenza di Herzog, così come quest’ultimo è il suo regista prediletto, due affezionatissimi “nemici”, per parafrasare un altro titolo noto del cineasta tedesco.

sabato 29 ottobre 2011

Cineforum 2011-2012 - I 7 vizi capitali




I 7 VIZI CAPITALI.

Non sono mai le virtù, ma sempre i vizi, a dirci chi è di volta in volta l'uomo.


Giovedì 24 novembre ore 20.45: INTRODUZIONE: “Seven” (1995) di D. Fincher

Giovedì 1 dicembre ore 20.45:SUPERBIA: “Aguirre, furore di Dio.” (1972) di W. Herzog

Giovedì 15 dicembre ore 20.45:AVARIZIA: “L’amico di famiglia” (2006) di P. Sorrentino

Giovedì 22 dicembre ore 20,45:LUSSURIA: “Ultimo Tango a Parigi.” (1972) di B. Bertolucci

Giovedì 12 gennaio 2012 ore 20.45:IRA: “Old Boy.” (2003) di Park Chan-wook

Giovedì 19 gennaio ore 20.45:GOLA: “La grande abbuffata” (1973) di M. Ferreri

Giovedì 2 febbraio ore 20.45:INVIDIA. “Che fine ha fatto Baby Jane ?” (1962) di R. Aldrich

Giovedì 9 febbraio ore 20.45:PIGRIZIA: “Il grande Lebowski” (1997) di J. & E. Coen


Presso la sede dell’Associazione “Porte Aperte” Via Matteotti 14/A

Castelfranco Veneto

Inizio proiezioni ore 20.45 (20.30 iscrizioni)

Costi: Tessera di iscrizione Porte Aperte 5 euro valevole per tutte le attività dell’associazione per il 2012

(contributo responsabile)

Info: 338 643 0893 (Paul)



I SETTE VIZI CAPITALI. PRESENTAZIONE DEL CINEFORUM

Tutte le storie, cinematografiche e non, nascono da un conflitto e da esso traggono alimento e forza. Più esso è potente, più la narrazione risulterà intensa, coinvolgente, piena. Il motivo è che l’essenza più profonda della realtà si esprime compiutamente attraverso lo scontro, la contesa. Ciascuna cosa e ciascun organismo vivente, per il fatto stesso di esserci, di occupare un determinato spazio in un determinato tempo, di esprimere un’identità unica e definita, si troveranno a confliggere per quello spazio, quel tempo, quell’identità con tutte le altre cose e con tutti gli altri organismi viventi. Si tratta del polemos eracliteo (cioè, letteralmente, della guerra), che il filosofo greco chiama “re e padre di tutte le cose”, vale a dire il principio generatore di tutto ciò che è.

I sette peccati capitali esprimono al meglio questa dimensione conflittuale, in quanto i contendenti sono addirittura l’uomo e Dio, le (com)pulsioni, le debolezze, le ossessioni umane e la legge divina. La dicotomia, peraltro, si estende anche al rapporto fra l’individuo ed una società molto spesso consolidata attraverso tale orizzonte prescrittivo (che si trasforma in morale comune ed habitus comportamentale, sovente meccanici e svuotati di senso), nella quale, non di rado, un contegno pubblico irreprensibile, almeno secondo le coordinate dell’etica diffusa, coincide con una condotta privata assai differente. Infine, soprattutto, è l’uomo a trovarsi solo di fronte a se stesso, quindi ai propri fantasmi ed alle proprie paure, di cui, per molti versi, i vizi capitali rappresentano l’estremizzazione reattiva; un soggetto che, umano troppo umano, fatica ad accettare di non essere il centro del cosmo e quindi, in definitiva, di non essere Dio.

Giangiacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud