martedì 15 dicembre 2009

Senso


Senso

Regia: Luchino Visconti

Italia, 1954, durata 115 min., colore

Interpreti: Alida Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Heinz Moog, Rina Morelli, Marcella Mariani, Sergio Fantoni.

In una Venezia ottocentesca, sotto il dominio austriaco, il patriota conte Ussoni (Girotti) sfida a duello il tenente Franz Mahler (Granger) che ha insultato gli Italiani. Livia (Valli), di sentimenti antiaustriaci, moglie insoddisfatta del conte Serpieri, avvicina Mahler per intercedere in favore del cugino Ussoni e se ne innamora follemente, giungendo a consegnargli i soldi destinati ai patrioti italiani. Ma dopo l’estrema degradazione arriverà la vendetta.

Dalla tutt’altro che felice novella Senso di Arrigo Boito, Visconti trae uno dei più straordinari film di ambientazione risorgimentale. Lo stesso regista ammette di essere stato attratto dal carattere di “eccezionalità” della storia d’amore tra due amanti stranieri e nemici. Tuttavia, mentre la novella si limita a sondare alquanto superficialmente il coacervo di torbide passioni e meschine viltà, affidando l’effetto drammatico alla ricerca di gesti smisurati, reazioni illimitate, relegando il contesto storico e sociale ad una condizione di sfondo sostanzialmente neutro, Visconti cerca una profonda organicità fra i caratteri dei protagonisti e l’ambiente, così da arricchire l’avventura individuale facendola interagire con la vicenda collettiva, al punto che “è la disfatta militare, la tragedia corale di una battaglia perduta, che prende il sopravvento sulla misera fine di un’avventura d’amore”. Solo così il film può essere visto come la grandiosa messa in scena della “crisi di una società, quella nobiliare, che agisce a fianco della Storia senza potervi partecipare” e può vantare un respiro epico che difficilmente a Visconti stesso è riuscito di ottenere. Il personaggio del conte Ussoni, che non esiste in Boito, è uno dei più evidenti elementi del film funzionali al necessario connubio fra la melodrammatica vicenda privata di Livia e Franz e la parte storica emblematicamente e sontuosamente rappresentata dalla ricostruzione della sconfitta sul campo di battaglia di Custoza.

La ricerca di “equilibri impossibili” è una delle chiavi di lettura più potenti, non solo del film, ma di tutta l’opera di Visconti. Epica e melodramma, estetismo e razionalismo, decadentismo e storicismo trovano in questo film equilibrio e coerenza, anche da un punto di vista strettamente formale. La colonna sonora si sviluppa tra il melodramma romantico di Verdi e il tardo romanticismo di Bruckner; l’allestimento del set si affida ad una Venezia autentica quanto non lo è mai stata o alla riproposizione pittorica delle atmosfere realistiche di Lega e Fattori o trasfigurate di Hayez.

Fotografia magistrale di G. R. Aldo, morto improvvisamente durante le riprese e sostituito da Robert Krasker e Giuseppe Rotunno.

Sceneggiatura che vede comparire il meglio, non solo italiano, della scrittura per il cinema: oltre allo stesso Visconti, Suso Cecchi D’Amico, con contributi di Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Giorgio Prosperi e, per i dialoghi, Tennessee Williams e Paul Bowles.

Assistenti alla regia Francesco Rosi e Franco Zeffirelli.

Costumi di Piero Tosi.


Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Renato Carlassara

mercoledì 9 dicembre 2009

Porcile

Regia: Pier Paolo Pasolini

Fr/Italia, 1969, durata 98 min, colore

Interpreti: Pierre Clementi, Jean-Pierre Leaud, Anne Wiazemsky, Alberto Lionello, Marco

Ferreri, Franco Citti, Ugo Tognazzi, Ninetto Davoli


Porcile si articola in due episodi tra loro intrecciati. Nel primo, ambientato in un’epoca imprecisata (forse il Messico del ‘500) e il cui set naturale è l’Etna, un uomo (P. Clementi) si dà al cannibalismo e insieme ad un occasionale compagno aggredisce i malcapitati viandanti per nutrirsene. E’ questo un atto simbolico di rivolta, di “anarchia apocalittica” come si evince dalle ultime parole del protagonista quando, ormai catturato, viene condannato ad essere dato in pasto alle fiere: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia”. Al primo episodio storico e “barbarico” si intreccia il secondo moderno e tedesco, girato nella villa Pisani di Stra (VE).


L’umore malinconico e gli strani comportamenti di Julian (J.P. Leaud), figlio di una famiglia di grandi industriali, sono fonte di preoccupazione per i genitori e per Ida, la ragazza, aderente al movimento studentesco, che lo ama non ricambiata. Il padre del ragazzo verrà ricattato dall’avversario industriale, un ex-criminale nazista, venuto a conoscenza delle inusuali frequentazioni di Julian nel porcile della tenuta e di quel che di scandaloso nascondono. Attraverso un montaggio parallelo, le due storie giungono contemporaneamente ad un epilogo luttuoso. Morale (secondo le parole dello stesso autore): “La società –ogni società- divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti: i figli devono essere obbedienti e basta”.

Come Teorema (1968), anche Porcile è un film-saggio, di intenzioni espressamente polemiche e ugualmente pessimista nelle conclusioni. Pasolini vi espone le proprie riflessioni sui temi della diversità e dell’intolleranza, del nuovo capitalismo edonista, dell’autoritarismo e del trasformismo della classe borghese e dei padri (qui da criminali nazisti a ben accetti borghesi). Riflessioni che, all’inizio degli anni ’70, sarebbero confluite nella sua attività di giornalista (vedi “Scritti corsari”) e avrebbero trovato un’ultima drammatica espressione in Salò o le 120 giornate di Sodoma.


Nel saggio “Empirismo eretico”, Pasolini elabora, ricorrendo alla linguistica, l’importante distinzione tra cinema di prosa e di poesia. Nel cinema di prosa (es. Ford), è la storia raccontata ad avere importanza e la regia è funzionale al coinvolgimento dello spettatore verso ciò che accade. Il cinema di poesia (es. Antonioni, Godard) vi si distingue per l’impiego nuovo degli elementi filmici (regia, montaggio, fotografia…) finalizzato ad esprimere la soggettività dell’autore, spesso in collisione con la normale coerenza spazio-temporale e comunque con la normale percezione del pubblico: la narrazione è un pretesto per l’emersione dell’interiorità del regista e della sua personale visione del mondo. A detta dell’autore, Porcile sarebbe, tra i suoi film, l’unico esempio di questo cinema di poesia, insieme (forse) a Uccellacci e uccellini (1966). Troviamo riscontro a questa affermazione se guardiamo alla particolare struttura narrativa “raddoppiata” dei due film: in entrambi il senso dell’opera, altrimenti oscuro, scaturisce dalla combinazione degli episodi. In Porcile è rilevante (e straniante) la differenza dei registri stilistici adoperati: l’uno aulico e severo, l’altro “geometrizzante” e grottesco, con richiami espliciti a Grosz e Brecht. Nel II episodio alcuni dialoghi sono in rima; il I episodio è invece quasi interamente muto. La distanza dal cinema “classico” (o di prosa) è netta: Pasolini non permette allo spettatore di essere ingenuo e la difficoltà del suo cinema sta proprio in questa sua intransigenza.


Ma Porcile è sopratutto una storia di solitudine: quella di chi non è in sintonia con il mondo in cui vive e difende strenuamente la propria diversità. L’ispirazione del film non deriverebbe tanto dal ricordo della contestazione del ’68, contro cui il Nostro si era scagliato nella celebre poesia Il PCI ai giovani, ma sembra piuttosto nascere dall’amarezza del poeta di fronte al disfacimento del proprio “sogno di una cosa”, ciò che ha amato e quello in cui ha creduto. La fine del mondo delle borgate, travolto dal nuovo corso storico, e la crisi dell’ideologia marxista sono due dei motivi di questa amarezza.


Nel film sono contrapposti due mondi: uno barbarico e antico, l’altro borghese e capitalistico. Si tratta di una contrapposizione ricorrente nell’opera di P.P.P. Ma qui, nonostante la differenza tra l’aperta rivolta del personaggio di Pierre Clementi e l’incertezza amletica di Julian, quello che conta è l’eterno ripetersi della medesima repressione da parte della società, sia essa antica o moderna. In ombra, un terzo personaggio è spettatore del perenne scontro tra padri e figli, tra società repressiva e membri ribelli: è la classe contadina e sottoproletaria. “I contadini, per usare un linguaggio d’altri tempi, sono i personaggi positivi del film. […] Sono in grado di capire ciò che la borghesia non sa riconoscere, il mistero che le sfugge, il senso del sacro che, per essa, è puramente verbale”.

Buona visione!


Andrea Taccari

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

martedì 8 dicembre 2009

H. P. Lovecraft’s Road to L. – Il mistero di Lovecraft.


Regia: Roberto Leggio, Federico Greco

Italia, 2005, colore

Durata: 86’

Cast: Roberto David Purvis, Roberto Leggio, Federico Greco, Simonetta Solder, Fausto Sciarappa, Fabrizio La Palombara, Gianni Sparapan, Donatella Ceccarello, Valentina Lodovini


1997: Andrea Roberti, studente presso la cattedra di Storia delle tradizioni popolari di Padova, sta redigendo la propria tesi di laurea, fondata sull’ipotesi di una stretta contiguità fra le cosmologie e le mitologie create dallo scrittore nordamericano Howard Phillips Lovecraft e quelle che costituiscono l’orizzonte tematico ed ambientale della narrativa popolare veneta (polesana in particolare), nota come “racconti del Filò”. Il 16 ottobre dello stesso anno, in riva al Po, nei luoghi in cui tali tradizioni hanno trovato alimento e si sono tramandate, misteriosamente scompare.

2002: il regista Roberto Leggio scova, in una bancarella di Montecatini, un manoscritto in inglese firmato “Granpa Theo”, uno degli svariati pseudonimi usati da Lovecraft nella sua carriera. Si tratta di un diario di viaggio e sembra indicare, contrariamente a quanto sostenuto dalle biografie ufficiali, secondo le quali Lovecraft non si sarebbe mai mosso dall’America del Nord, la concreta possibilità che lo scrittore abbia viaggiato e soggiornato in Veneto, in prossimità del delta del Po, in una misteriosa località indicata come “L.”. In tale manoscritto si fa esplicito riferimento alla tradizione popolare del “Filò”.

2004: Roberto Leggio, insieme a Federico Greco ed a David Purvis, iniziano a lavorare ad un documentario che, nelle loro intenzioni, dovrebbe approfondire e confermare l’ipotesi del viaggio in Polesine di Lovecraft. L’ostilità della popolazione locale unita alla scoperta della scomparsa dello studente e ad una serie di inquietanti circostanze li condurranno all’interno del mondo chiuso e minaccioso della profonda provincia veneta, che tanto sembra avere in comune con quelli descritti dal “solitario di Providence”.

Caso più unico che raro di mockumentary (dall’inglese mock= falso e documentary= documentario) in cui la componente finzionale viene non di rado superata da quella veridica (con differenze sostanziali rispetto a predecessori più o meno illustri come F for fake di Orson Welles, 1974, Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, 1979 o The Blair Witch Project di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, 1999). In Road to L., alcuni degli avvenimenti descritti, soprattutto lo spunto di partenza, cioè il ritrovamento del manoscritto, hanno una loro radice di attendibilità. L’intenzione iniziale degli autori di verificare e quindi di documentare la loro ipotesi, vale a dire la ricerca di un tipo di verità intesa come mero fatto o come dato oggettivo, viene a scontrarsi con tutta una serie di elementi e variabili che ne modificano strutturalmente gli esiti inizialmente previsti. Nel mondo in cui entrano, i confini fra visibile ed invisibile, fra reale ed immaginario, divengono sempre più labili, indiscernibili. Il documentario che intendono realizzare[1] deve mutare per risultare verosimile, giacché la realtà con cui i nostri si scontrano lo è sempre meno. Solo il racconto di finzione, paradossalmente, sembra in grado di diventare testimonianza verosimile di una realtà che pare aver smarrito ogni coordinata di senso. In altre parole, non si può “documentare” il mistero se non trasfigurandolo.

Lo scambio fra realtà e finzione non è comunque l’unico presente né l’unico a rivestire un certo interesse al fine di sondare con una certa pienezza i temi evocati da quest’opera stratigrafica e complessa. Vi è anche quello fra due diverse, ma strettamente correlate, dimensioni del racconto: quella locale (il Filò) e quella universale (la trasversalità e la diffusione di miti e narrazioni con notevoli somiglianze strutturali ed archetipiche all’interno di comunità, luoghi e tradizioni distanti e molto spesso incomunicanti fra loro), in un’opera che per certi versi potrebbe anche essere vista come un saggio di mitologia comparata. Da questo punto di vista, non sarebbe nemmeno necessario dimostrare la venuta di Lovecraft in Polesine. Anzi, all’opposto e paradossalmente, volendo porre un confronto fra archetipi mitici così affini, ma partoriti da comunità incommensurabilmente lontane dal punto di vista spaziale, forse, nel caso specifico, sarebbe quasi auspicabile dimostrare il contrario. Elemento questo che equivarrebbe a dire che Lovecraft potrebbe non aver avuto alcun bisogno di visitare il Polesine per evocare un immaginario fantastico già del tutto simile al suo.

In stringente contiguità con il tema appena rimarcato si pongono altri due elementi: quello linguistico e quello xenofobico. Per ciò che attiene al primo, va sottolineato come tutto il film sia parlato in inglese (la lingua “universale” per eccellenza della contemporaneità, la lingua della globalizzazione nonché della colonizzazione culturale operata, ad ogni latitudine, dai paesi anglosassoni, in primo luogo dagli USA) ed in dialetto veneto (forma linguistica che è e non può che essere espressione di un luogo circoscritto a livello geografico, storico, culturale ed antropologico), o in un italiano connotato da un forte accento e da una strutturazione sintattica fortemente dialettali. È uno scambio che marca uno scarto, uno scambio ineguale, un dia-logos mancato. I due gruppi contrapposti nel racconto filmico, la troupe e la popolazione locale, faticheranno a comunicare, fino ad arrivare ad un atteggiamento di aperta animosità degli autoctoni nei confronti dei filmakers. In più, molto presto, anche all’interno della troupe scoppieranno dissidi, rancori e gelosie, anche se non legate alla lingua, in questo caso.

Per quanto riguarda invece l’elemento della xenofobia (dalle parole greche ksenos= straniero, estraneo, ospite e phobos= timore) esso risulta centrale innanzitutto per capire una delle cause primarie capaci di scatenare la potenza dell’immaginazione di Lovecraft: la paura dell’estraneo/straniero appunto. Si tenga presente che Lovecraft era un razzista convinto, un wasp che, una volta trasferitosi a New York per sposarsi ed in cerca di fortuna (senza mai trovarne molta, invero), fu obbligato ad avere contatti con le “razze” che lui giudicava inferiori: ispanici, italiani e niggers (letteralmente “negracci”) come lui stesso li chiamava nei suoi racconti. È da questo contatto forzato che si sviluppa in lui l’immaginario da cui trarranno origine le sue grandiose mitologie nonché tutta quella infinita serie di esseri mostruosi, nati da accoppiamenti ibridi, empi ed innominabili. E, si sa, niente riesce a creare paura più della paura stessa. L’elemento della xenofobia risulta peraltro assai importante per far luce sui moventi, le pulsioni e le reazioni che connotano il problematico rapporto con l’Altro in tutti quei sistemi chiusi, le comunità dell’entroterra veneto così come quelle della provincia americana, non fa differenza (locale ed universale ancora una volta si toccano), in cui chiunque venga da fuori, chiunque sia “foresto” (in un’accezione che accomuna il semplice forestiero allo straniero tout court) viene nel migliore dei casi guardato con sospetto, nel peggiore con sgomento.

Ecco che allora i volenterosi ragazzi della troupe si ritrovano catapultati in un universo da incubo che somiglia molto a quello descritto dallo scrittore di Providence. Volevano seguire le orme di Lovecraft e si ritrovano dentro ad uno dei suoi racconti o forse direttamente nel cuore del suo mondo immaginario, magari proprio là dove “[…] il morto Cthulhu attende sognando.”[2]

Gian Giacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud



[1] Documentario che comunque vedrà la luce più o meno contemporaneamente a Road to L. (col titolo: H. P. Lovecraft – ipotesi di un viaggio in Italia) e che ne costituisce di fatto un’appendice, un controcanto, un elemento utile per comprendere meglio la genesi dell’opera maggiore e non viceversa, come probabilmente era nelle intenzioni iniziali degli autori.

[2] Da H. P. Lovecraft, The Call of Cthluh, 1926.

domenica 22 novembre 2009

La giusta distanza

Di Carlo Mazzacurati. Con Giovanni Capovilla, Ahmed Hafiene, Valentina Lodovini, Giuseppe Battiston, Roberto Abbiati, Natalino Balasso, Stefano Scandaletti, Mirko Artuso, Fabrizio Bentivoglio, Marina Rocco, Ivano Marescotti

Drammatico, durata 106 min. - Italia 2007


La giusta distanza è ambientato in un paesino immaginario, Concadalbero, posto alle foci del Po e racconta un’umanità immobile e per certi versi grottesca, apparentemente accogliente, che determinerà fatalmente la sorte dei tre protagonisti. Questo è il mondo rappresentato attraverso una trama gialla. Nel paesino arriva, dalla città, la nuova maestra Mara (interpretata da Valentina Lodovini) creando inquietudine in Hassan (Ahmed Hafiene), meccanico tunisino stimato e rispettato in paese, e curiosità in Giovanni (Giovanni Capovilla), diciottenne al primo incarico per “Il Resto del Carlino”. Nasce così la storia d’amore fra Hassan e Mara che si risolverà in tragedia. Per Mazzacurati, la “giusta distanza” è quella che un giornalista dovrebbe saper tenere tra sé e la notizia: non troppo lontano da sembrare indifferente, ma nemmeno troppo vicino, perché l’emozione, a volte, ti può abbagliare. Solo infrangendo tale regola Giovanni ristabilirà la verità e riporterà la giustizia in un paese (l’Italia) dove il conformismo detta le regole della vita sociale.

I tre attori sono alla loro prima prova come protagonisti e Giovanni Capovilla alla prima prova in assoluto. Fra gli altri attori spiccano Fabrizio Bentivoglio, il capo redattore, e Giuseppe Battiston, il ricco, in due ruoli macchietta terribilmente veri.


Il cinema di Carlo Mazzacurati racconta di gente comune, spesso sfortunata, di persone estranee al lusso ed attaccate ai gesti concreti, un mondo marginale che include anche chi ce l'ha messa tutta e non sempre ce l’ha fatta. Secondo il Morandini “.. Mazzacurati fa parte di quel gruppo di cineasti che percepisce la realtà presente del paese con uno sguardo dotato di lenti bifocali: riesce a dare voce e corpo ad un cinema di vita provinciale, ovviamente localistico in cui si respira l'attaccamento alle piccole cose ma non solo. Questi mondi circoscritti che vivono di fianco alle realtà metropolitane diventano anche lo spazio in cui si innalzano le voci di tutti gli uomini, uniti in una condizione universale che non si scorda di nessuno, neanche dei perdenti.”


Con “La giusta distanza” Mazzacurati ritorna a vent’anni di distanza nei luoghi di “Notte italiana” il suo primo lungometraggio. Dice Mazzacurati: “Ci sono posti in cui il presente sembra arrivato solo in parte. Concadalbero, il paese immaginario, ma assolutamente plausibile in cui questa storia è ambientata, è esattamente questo, un microcosmo alla periferia della realtà. Un luogo anonimo, misterioso, struggente.

Siamo nel nord Italia, in quel lembo di terra che nelle cartine geografiche sembra sprofondare nel Mar Adriatico assieme alle ramificazioni arteriose del Po nel suo stadio di Delta. Ma potremmo anche essere in una piatta area della campagna francese o in un qualsiasi piccolo centro agricolo del middle west americano, o in Argentina, e non credo che la storia cambierebbe molto. Torno volentieri per la terza volta, in questo luogo da cui sono partito vent’anni fa con il mio primo film: “Notte Italiana”. Mi interessano i mutamenti, ma anche il senso di fissità e immobilità di questa terra, la sua vastità e la solitudine che evoca.

Per me è come uno strano teatro di posa all’aperto in cui, ogni volta, posso inventare un mondo. I tre ruoli principali del film sono interpretati da attori alla loro prima esperienza da protagonisti. Avevo bisogno di creare una totale identificazione tra loro e i personaggi. In parte lo si potrebbe definire un giallo: c’è un morto, anzi due, qualcuno che indaga, un colpo di scena… ma, per me, è soprattutto il ritratto inquieto di una piccola comunità. Il tentativo di fotografare, anzi radiografare il sistema nervoso di un paese collocato, appunto, nell’Italia del nord in questi tempi difficili. Forse il tema del film è “il male” che, come sempre, tutti tentiamo di collocare fuori da noi. Qui “il male” avvolge tutti, compresa la voce narrante. Durante le riprese, ma anche al montaggio, abbiamo cercato di non forzare nulla, ho accettato gli imprevisti come variazioni che arricchivano. Ho atteso sempre che un senso di autentico entrasse nelle scene e le orientasse. Quel che più mi premeva era trovare un mondo e dargli vita. Oggi che il film è finito, ciò che più mi tocca è la sensazione che questo mondo esista e che preceda e vada oltre l’orizzonte del nostro racconto.”


A cura di Giuseppe Esposito

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud




mercoledì 18 novembre 2009

La donna del fiume

Regia: Mario Soldati

Italia, 1955
Interpreti principali: Sofia Loren, Lise Bourdi, Gerard Oury.
Soggetto: E. Flaiano e A. Moravia. Sceneggiatura: M. Soldati, G. Bassani, P.P. Pasolini e F. Vancini.
Genere: drammatico

Non è certo una delle prove migliori o più interessanti di Soldati, personaggio eclettico che ha cominciato a lavorare nel cinema più per necessità che per passione; comunque l’elemento che risalta, oltre a una prosperosissima, (come una polena), Sofia Loren, è il paesaggio del Polesine, all’incrocio tra le province di Ferrara e Rovigo. Luoghi carissimi al regista anche perché nello stesso periodo aveva cominciato a produrre una serie televisiva intitolata “Viaggio nella valle del Po” (1955-56).
Afferma M. Soldati: “La donna del fiume ? Non me ne parlate, quando incontrai Ponti mi disse: Voglio il film con Sofia Loren, ci dovete mettere la motocicletta, ci dovete mettere il ballo, ci dovete mettere il bambino che muore, tutto deve finire male, anzi deve finire bene, lei deve essere madre, lei deve essere attrice, lei deve andare in bicicletta, lei deve…” Anche questo film è frutto di gravissimi e pesantissimi compromessi, di vero, di vivo non c’era che il paesaggio, l’ambiente e credo che questo risulti anche nel film. Io sono stato chiamato solo all’ultimo momento, come uno dei tanti ingredienti che Ponti voleva mettere per lanciare la Loren”.
“La donna del fiume, nacque da alcuni miei documentari e fui coinvolto in questa operazione proprio per questo. Ricordo che spesso Soldati, mentre facevamo dei sopralluoghi, mi chiedeva dove avevo girato una determinata scena e io ce lo conducevo perché lui era deciso ad ambientare in quel posto una particolare sequenza….se uno legge l’elenco dei collaboratori resta sbalordito, perché il soggetto originale era di Moravia e Flaiano, la sceneggiatura di Bassani, Pasolini, Basilio Franchina, me e un altro che ora non ricordo, la regia di Soldati. Insomma una rosa di nomi eccezionale. La collaborazione fu molto piacevole. Ero emozionantissimo, perché quello era il mio primo contatto con il mondo del cinema industriale, con il grande produttore, con il grosso regista.” (Florestano Vancini).

Trama: comunque il racconto di taglio popolare è ben costruito. E come in altri film ambientati in… zona, s’affida a una commistione geografica, tra le due province di Rovigo e Ferrara.
Nives, prosperosa e fiera ragazza lavora alla marinatura delle anguille nelle valli di Comacchio. Viene sedotta da Gino, sorvegliante e contrabbandiere, che la respinge nonostante sappia che la ragazza aspetta un figlio suo. Lei lo denuncia, e va a tagliar canne nel Polesine. Il bimbo nato nel frattempo, annega. Durante il funerale del bimbo, il seduttore si costituisce e chiede a Nives, umilmente, di attenderlo.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
Paul Zilio

domenica 15 novembre 2009

Il disco volante

Regia: Tinto Brass

Italia, 1965, durata 94 minuti, b/n

Interpreti principali: Alberto Sordi, Monica Vitti, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano.continua»

Genere: commedia.

Qualcuno potrebbe pensare, non conoscendo la biografia di Tinto, che “c’azzecca” questo regista in questa rassegna ? Eppure nella sua ormai cospicua filmografia , i suoi primi lavori avevano un carattere sicuramente anarchico (vedi “Chi lavora è perduto”) e avevano uno spirito di rivolta, di rabbia e di rifiuto di ogni stabilizzazione sociale, ideologica e istituzionale che lo faceva apparire diverso da tutti gli altri esordienti di quel periodo, anche se Goffredo Fofi nel 1966 affermava “… i Brass ed altri che dimostrano la loro vuotezza e la loro profonda mancanza di un discorso convinto da tentare, scialbi pseudoautori quali sono, pronti ad ogni copertura ideologica per mascherare la loro mancanza di scrupoli…”procacciandoci” (n.d.r.) divagazioni progressiste-democratiche o esercitazioni di bello stile…”.

Ma questo film, secondo lungometraggio, appartiene ancora alla prima fase suddetta, ed è un’opera di tutto rispetto, per molti versi inquietante e profetica, per altri dotata di umori e di uno stile sconosciuti nel panorama della commedia. Nel 1966 la svolta, la carriera segue un suo cursus produttivo che mostra un assorbimento totale del regista nella sfera erotica fino agli estremi sado-masochisti del porno-soft. Però l’autore in “stricto sensu”, non è certamente uno sprovveduto, in quanto ottimo professionista (vedi: “L’urlo”, “Dropout”, “Salon Kitty”, “La vacanza”, “La chiave”, “Snack Bar Budapest”), anche se il suo impegno scema fino alla trivialità più gratuita.

Perché l’inserimento di quest’opera nella rassegna sul territorio “Veneto in film” ? Prima di tutto perchè è un film che ci riguarda da vicino, in quanto è stato girato ad Asolo e nella campagna circostante; alcuni luoghi si possono riconoscere ancora oggi chiaramente, a volte invece lo sfondo risulta sfumato e poco definito.

Alcune battute e rilievi sul malcostume veneto ricordano il film di Germi “Signore e signori”; il disco volante è una grottesca satira sull'arretratezza di un'Italia provinciale dedita all'alcolismo e sulla sua assenza di moralità in tutte le classi sociali, dalla nobiltà decadente alla borghesia ipocrita e perbenista.

Il film è stato prodotto da Dino De Laurentiis il quale, dopo aver sottoposto la sceneggiatura di Rodolfo Sonego a maestri come Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli, volle mettere alla prova il giovane regista veneto per la prima volta alle prese con una produzione non indipendente.

Da sottolineare l’interpretazione di Alberto Sordi (non sempre credibile come carattere veneto), che qui impersona ben quattro personaggi.

Trama: un disco volante plana in un paesino, e il brigadiere dei carabinieri deve interrogare vari testimoni; tra questi una contadina piena di figli che è riuscita a catturare un marziano “vendendolo” al proprio padrone. Il marziano viene ucciso dalla madre dell’uomo che viene poi spedito in manicomio. L’interrogatorio convince il carabiniere che nulla è accaduto e che tutti sono dei visionari.


Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Paul Zilio

venerdì 6 novembre 2009

Signore & Signori


Regia: Pietro Germi

Italia, 1965, durata min. 108, B/N

Interpreti: Alberto Lionello, Gigi Ballista, Gastone Moschin, Virna Lisi, Olga Villi, Franco Fabrizi, Nora Ricci, Quinto Parmeggiani, Beba Loncar, Giulio Questi, Gia Sandri, Alberto Rabagliati, Gustavo D’Arpe, Moira Orfei, Elia Guiotto, Patrizia Valturri, Carlo Bagno, Aldo Pugliesi, Virgilio Gazzolo, Antonio Acqua, Sergio Fincato


Tre storie ambientate nella medesima città: Toni Gasparini (Lionello) confessa al medico (Ballista) di essere impotente per fargli abbassare la guardia e conquistarne la moglie (Loncar); un marito schiavizzato (Moschin) da una moglie ossessiva (Ricci) spera di trovare la libertà grazie all’amore di una cassiera (Lisi); un contadino (Bagno) accetta per soldi di non denunciare i ricchi borghesi (Fabrizi, Lionello, Parmeggiani, Guiotto, Questi) che hanno approfittato della figlia minorenne (Valturri).

Dopo l’immersione nel costume siciliano, Germi concentra il suo caustico sguardo sulla società settentrionale e sceglie, quanto mai emblematicamente, un’imprecisata ma riconoscibilissima Treviso per affondare la lama nei vizi privati, nell’ipocrisia, nel cinismo, nel perbenismo tutto cattolico della borghesia di provincia, veneta in particolare, colta nel momento epocale del boom economico. Germi è spietato e sarcastico, totalmente immune dalle indulgenze, complicità, compiacenze che spesso si trovano nella commedia all’italiana.

Soggetto di Luciano Vincenzoni che si basa su fatti reali o addirittura autobiografici. Sceneggiatura di Age, Scarpelli, Vincenzoni, Germi. Del non accreditato Flaiano l’idea di abbandonare la tipica struttura ad episodi: i protagonisti di ciascuna delle tre vicende emergono da un parterre di personaggi che in altri momenti ricoprono ruoli secondari. Il film trova così una sorta di continuità narrativa, un’unità di luogo e di contesto sociale che finiscono con l’accentuare la chiusura claustrofobica di una società rappresentata come gretta, narcisista, autoreferenziale e, in ultima istanza, “amorale”, dalla quale non sembra possibile alcuna reale via di fuga.

Palma d’oro al Festival di Cannes.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

Renato Carlassara

sabato 24 ottobre 2009

Giovani sguardi sul presente


Il progetto, innescatosi dall’iniziativa di un gruppo all’interno del corso di Progettazione Partecipata tenuto dal formatore Gerardo de Luzenberger, socio fondatore della Scuola Superiore di Facilitazione, si propone di riunire, su degli obiettivi comuni, varie associazioni superando così particolarismi che possono condurre ad un’azione e ad un’offerta di iniziative spesso frammentate e poco coordinate. Quaranta erano le persone presenti al corso provenienti da associazioni iscritte al Coordinamento e non, insegnanti, studenti, formatori. Comune la riflessione sui limiti di un volontariato che non riesce a “far rete” .

La possibilità di un lavoro di rete tra le associazioni locali in vista di un progetto concreto condiviso ha molto motivato i partecipanti.

Alcuni dei problemi comuni condivisi nel corso sono stati la difficoltà di coinvolgere i giovani nel volontariato, la carenza di punti di riferimento, la crisi dei concetti di impegno e partecipazione.

Da qui l’idea di offrire non solo ai giovani, ma alla cittadinanza, delle occasioni di interrogarsi sulla realtà in cui viviamo, di proporre risposte positive con spazi di espressione,di creatività negli ambiti più diversi, di offrire delle occasioni di interrogarsi sulla realtà che ci circonda, di stabilire dialoghi e confronti.

Saper “stare” e agire su un contesto territoriale, come organizzazione di volontariato, significa in primis saperlo leggere e comprendere. La lettura del territorio è un terreno comune su cui le varie associazioni possono confrontarsi proficuamente. Creando uno stesso contesto di riferimento, si possono valorizzare i i rispettivi punti di vista e le letture che ciascuno fa da angolature differenti e si attivano così le premesse per intraprendere un positivo percorso di collaborazione in cui ciascuno sente che la propria voce è accolta e ascoltata..

Il progetto è costruito su diversi moduli ed è stato realizzato creando dei momenti di raccordo e condivisione/coordinamento tra i vari gruppi in modo da non perdere di vista il filo comune delle attività.

I temi – chiave individuati, su cui si fonda il percorso, sono : l’”altro”, l’ “omologazione”, “l’individualismo” che saranno affrontati utilizzandolo sguardo del cinema e della letteratura. A questo si associa il tema dei “diritti” a una anno dal sessantesimo della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: un breve percorso di formazione e riflessione sulla Costituzione Repubblicana rivolto alla cittadinanza in generale e alla formazione dei giovani. L’acquisizione dei contenuti della Carta Costituzionale da parte dei cittadini costituisce una sicura priorità all’interno della comunità democratica, ponendo essi le garanzie fondamentali a presidio dei diritti e delle libertà dei cittadini stessi da un lato, e costituendo i principi primi a fondamento delle istituzioni repubblicane, dall’altro.

In conclusione si è avvertita anche la necessità di inserire delle azioni di monitoraggio sul territorio, una ricerca che avrà come protagonisti i ragazzi perché possano conoscere più da vicino e direttamente la realtà locale, mettendo in evidenza i fenomeni di inclusione ed esclusione sociale.

giovedì 22 ottobre 2009

Partecipazioni - L’Europa verso il suicidio?


Il Movimento Federalista Europeo e Veneto Liberale,
in collaborazione con il Comune, l’Assessorato alla Politiche Giovanili, la Biblioteca comunale e l’Informagiovani di Castelfranco e le Associazioni Novi Cives, Porte Aperte e Buenaventura sono liete di invitarLa alla presentazione dell’ultimo libro di Giulio Ercolessi che si terrà sabato 31 ottobre alle 16:45 presso la sala “P. Giudolin” della Biblioteca comunale di Castelfranco Veneto

L’Europa verso il suicidio?
di Giulio Ercolessi

L’Europa, come continente, come attore nel mondo e come unione politica, secondo l’autore è destinata al suicidio se non si porrà seriamente il problema di rispondere, modificando le proprie strutture nel senso di una maggiore integrazione, alle sfide del mondo di oggi: la crisi economica, la disoccupazione, l’ambiente, la globalizzazione ed il rapporto con le economie emergenti.

Sabato 31 Ottobre 2009 — ore 16:45
Sala “P. Guidolin” Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto
Incontro con Giulio Ercolessi, autore di “L’Europa verso il suicidio?” (edizioni Dedalo).

Giulio Ercolessi è nato a Trieste nel 1953. Ha iniziato la sua attività pubblica negli anni intorno al 1968 in ambito studentesco, su posizioni critiche dell’assemblearismo sessantottesco, criticando sia i miti studenteschi della“democrazia diretta” sostanzialmente subalterna alla cultura comunista, sia i contrapposti richiami all’ordine di tradizionalisti, neofascisti e clericali. Dopo un iniziale impegno politico nelle organizzazioni giovanili del Partito Liberale Italiano e del Movimento Federalista Europeo, ha fatto parte del Partito radicale dal 1971 del quale è stato segretario nazionale nel 1973-74 impegnandosi per ricomporre l’area liberalradicale, laica e socialista del sistema politico italiano. In quegli anni sono numerose le sue pubblicazioni in “Notizie radicali”, “La prova radicale”,“Argomenti radicali” e“Quaderni radicali”, nel quotidiano di Trieste“Il Piccolo”, e le nelle riviste“Il Mondo”,“Il Manifesto”,“Pace e guerra” e“Contatto”.

La cittadinanza è invitata

giovedì 1 ottobre 2009

Veneto in film - sopralluoghi



IL VENETO NEL CINEMA

Il territorio veneto, le trasformazioni fisiche che ne hanno decretato la forma attuale, come specchio delle dinamiche sociali, politiche, economiche, culturali, antropologiche, presenti e passate.

D’altra parte la capacità del cinema, unica tra le arti, di interpretare il tessuto sociale, di adagiarvisi come un velo che non ne modifica gli sviluppi, ma ne influenza la percezione, senza la pretesa di incidere in maniera significativa sulle dinamiche sociali, bensì di condizionarne la lettura. La possibilità che offre il cinema di riferirsi al passato, riproporlo, ricostruirlo e altresì di testimoniare o addirittura documentare il presente, attraverso l’inevitabile filtro di un linguaggio specifico, ma ben per questo necessariamente attuale, generando un corto circuito tra passato e presente, tra oggettività e finzione scenica, che non potrà mai essere rassicurante e consolatorio. Se poi la fruizione dell’opera cinematografica avviene a congrua distanza temporale dalla sua produzione, la dinamica della percezione si arricchisce, si stratifica e al momento della ricostruzione storica realizzato in un contemporaneo ormai passato si innesta la rilettura nel presente proponendo un continuo gioco di rimandi tra diversi passati e l’unico presente.

E quindi il ritorno al territorio veneto, esaltato, usato, trasformato, sfruttato, violato, evocato, vagheggiato. Per più di 2000 anni di storia la conquista del territorio è avvenuta adeguando l’intervento insediativo alla preesistenza, che fosse di origine naturale o umana, nel quadro di una generale politica di rispetto del territorio stesso che considerava quel sedime alla stregua di una necessaria, irrinunciabile opportunità. Già agli inizi del XX secolo, ma con una decisa linea di tendenza che si sviluppa nel secondo dopoguerra, si assiste al progressivo scollamento di qualunque pratica insediativa e edilizia dal dato concreto offerto dal territorio. Lo sviluppo si lega in una sorta di patto perverso a modelli astratti che trovano la propria legittimazione solamente in supposte ragioni di natura sociale, politica, consensuale. A più di 50 anni di distanza possiamo leggere la lungimiranza e la validità di questa impostazione valutando ciò che ci ritroviamo a gestire, alle possibilità che quelle che ormai sono preesistenze ci concedono di adeguamento alle esigenze di una realtà che muta sempre più velocemente. Qualcuno (Turri, Cervellati) ha parlato in termini di degrado del territorio veneto come specchio di un impoverimento culturale che è andato di pari passo con il progressivo mutamento delle condizioni lavorative, sociali, economiche della popolazione.

Il cinema, forse, è l’unica forma di linguaggio capace di porci di fronte a questo specchio.

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud


Scarica la locandina

Partecipazioni - 1° Art. premio al maestro Giusto Pio

Giusto Pio è nato l'11 gennaio 1926 a Castelfranco Veneto dove vive tuttora. Ha ereditato dal padre la passione per la musica. A 13 anni comincia a studiare il violino a Venezia con Malipiero e Ferro. Dopo il diploma si sposa e si trasferisce a Milano. Ottiene importanti riconoscimenti nazionali ed internazionali ed entra nell’Orchestra della RAI di Milano come violino di Concertino, posto che gli permise di acquisire in un trentennio di collaborazioni con i migliori direttori ed esecutori del mondo, una vasta esperienza in campo sinfonico orchestrale ed operistico. In quegli anni svolse anche una intesa attività didattica e cameristica con i migliori complessi italiani, eseguendo un vasto repertorio musicale che attraversa i più svariati filoni storici arrivando alla musica contemporanea. Numerose sono state la registrazioni con le principali case discografiche del tempo ( Ricordi, Angelicum,Vox, Decca).
Alla fine degli anni 70 conobbe Franco Battiato a cui impartì lezioni di violino, poi per passione e per curiosità, iniziò con lui e con Juri Camisasca a tenere concerti di improvvisazioni nei locali milanesi.
“Fu mia figlia che mi convinse; perché conosceva la sua musica che girava tra i giovani. Franco veniva a studiare a casa mia e dopo poco tempo abbiamo scoperto che avevamo modi di pensare la musica abbastanza simili. Questo è il motivo che ci ha consentito di iniziare la nostra collaborazione”.
Nel 1978 collaborò come musicista all’album Juke Box di Battiato, che poi gli produsse il suo primo disco MOTORE IMMOBILE ( la cui copertina è rappresentata anche nella locandina di questa serata). In questo disco di musica sperimentale, pubblicato dalla Cramps di Gianni Sassi, suo carismatico fondatore e figura capace di sperimentare musica totale anche con gli AREA e JOHN CAGE, sperimentazioni rivoluzionarie dell’arte musicale, appare anche la voce di Battiato camuffata sotto il nome di Martin Kleist.
Inizia così con Battiato una collaborazione artistico-musicale tra le più prolifiche ed interessanti degli anni 80 e dei primi anni 90 in Italia; un sodalizio che lo porterà a nuovi traguardi sia nella musica d’avanguardia, che commerciale, riscotendo un grandissimo successo discografico.
Giusto Pio partecipò a tutti i dischi di Franco Battiato da L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO del 79 a UMPROTECTED del 1994 a volte come coautore delle musiche, degli arrangiamenti, di violinista, di direttore d’orchestra, partecipando anche a numerosi tour di Battiato. La coppia di artisti scrisse in quegli anni anche le musiche e gli arrangiamenti per altri artisti come ALICE, GIUNI RUSSO, MILVA, GABER, OMBRETTA COLLI. Con Alice e la canzone PER ELISA vince il Festival di Sanremo nel 1981.
“ Non c’era un metodo particolare per la stesura di una brano; a volte le canzoni nascevano casualmente; una volta eravamo in macchina durante un tour; un’altra volta mi ricordai di una canzone del tempo di guerra ed eravamo a Poggibonsi…. Sono comunque il frutto di tanto lavoro, del massimo impegno, di idee chiare e precise.”
Dal 1982 ed il 1987 Giusto Pio compone tre album molto personali : Legione Straniera , Restoration, e Note anche qui con un notevole successo di vendite presso i giovani.
“ Direi che si fa molta più fatica a scrivere musica leggera, perché in pochi minuti devi dire tutto e farci stare dentro tutto.
Compreso quel ritornello ripetuto che deve piacere per colpire l’ascoltatore e conquistarlo. In una canzone tutto è composto e preparato per arrivare al ritornello, il punto mitico del brano”.
Diventa socio SIAE, partecipa a convegni, dibattiti, e per la sua esperienza diventa consulente della Emi, Poligram, Ricordi, Sony per la gestione dei complessi artistici e spettacoli culturali in genere.
Nel 1998 incise Alla corte di Nefertiti con il quale passa ad un genere musicale molto diverso dai precedenti. Si accostò alla ricerca sonora ed elettronica, alle musiche per il teatro, per film, e commenti musicali interattivi con la pittura, la scultura e la poesia.
Le ultime realizzazioni musicali avanguardistiche sono UTOPIE (1990), MISSA POPULI (1995) dedicata a S.S.Giovanni Paolo II; A.D.A.M. UBI ES, LE VIE DELL’ORO (2000), e l’imponente TRITTICO MUSICALE : ISAIA 6,9-10, BEATITUDINI, e VISIONE ( 2005)
“La musica di adesso la seguo pochissimo. Mi piace sperimentare suoni, e lasciarli interpretare in un modo o nell’altro, i suoni hanno una vastità enorme di significati e chiunque li può ascoltare alla propria maniera. Mi piace così.
Dei vecchi tempi, mi piace sapere che tante delle nostre canzoni sono state per molte persone come “ colonne sonore” della loro vita.”

LE MOTIVAZIONI DEL 1° ART PREMIO

COME POSSIAMO DEFINIRE LA MUSICA DI GIUSTO PIO ?

Le arti tradizionali o le arti evolute attraverso canoni tradizionali sono la constatazione creativa del processo della creazione. Nessun musicista conosce però i legami che esistono fra determinate frequenze chiamate “perfette” e le espressioni delle forze operanti in natura….
Quando un musicista si pone da tramite per elaborare un lavoro d’artigianato che è la musica finita, in lui agiscono le stesse forze che determinano il mondo manifestato….
Il suono modale è la forza viva che permette alle infinite componenti il corpo umano, identico all’universo, di immettere un sentimento corrispondente alla frequenza intuita dal musicista.
Esistono modi sonori che, rappresentando frequenze perfette influenti sull’equilibrio dell’ Uomo e degli universi, ricreano l’essenza di emozioni che sono diretta espressione dell’esistenza di una energia manifestante il piano emotivo dell’individuo. ….
Risalire, per mezzo del suono, alla comprensione di questi fenomeni, significa ricomporre i moti della creazione.

Giusto PIO: un musicista stimolatore di proposte musicali inconsuete, un compositore concettuale, sperimentatore d’avanguardia.

Un cittadino che onora la Città di Castelfranco Veneto.

Il 1° ART PREMIO viene consegnato a Giusto Pio dal Presidente ARCA CNA
Ildo Pettenon e dal Sindaco del Comune di Castelfranco Veneto Maria Gomierato.

lunedì 28 settembre 2009

Partecipazioni - Gianmaria Testa a Castelfranco Veneto


Il Circolo Culturale Buenaventura e Arca CNA hanno il piacere di ospitare Gianmaria Testa in concerto (chitarra e voce), Domenica 11 ottobre alle ore 20.30 presso il centro don Ernesto Bordignon, via Bassano 16, Castelfranco Veneto (TV).

Gianmaria Testa, artista riconosciuto a livello internazionale, canta in italiano e vive in Italia, nelle Langhe. IL DESTINO ha voluto che i suoi primi tre dischi siano stati prodotti in Francia, ma in cinque anni si è imposto come artista di talento: la stampa (sia francese che italiana) è stata unanime nell' individuare in lui uno dei più importanti cantautori italiani attuali.

Gianmaria è un cantautore profondamente popolare e raffinato al tempo stesso, un cantautore della voce roca e vellutata che fa della canzone nuda la sua vera forza.

Testi come piccole poesie che parlano di nebbie e di incontri, di solitudini e di colline e musiche che evocano il tango, il jazz, la bossanova, la habanera, il valzer e creano suggestioni calde, intense, che sanno avvolgere. Il suo cantare immagini e sentimenti è semplice, di matrice popolare, tradizionale, e perciò vincente, oltrepassa banali paragoni e facili accostamenti e si deposita diretto nell’intimo di chi ascolta.

Se sono certamente importanti il successo internazionale dei primi dischi prodotti, gli inebrianti applausi dell’Olympia, i concerti nei grandi teatri europei e americani, sono però straordinariamente intimi e personali.


I colori delle terre di Langa, è proprio di Testa rendere musicali i tacchi di una donna che si perdono lungo la pensilina di un’anonima stazione, come le unghie incalcinate di un muratore che muore con la sua casa costruita da solo negli occhi e nel cuore. http://www.gianmariatesta.com/ - http://www.myspace.com/gianmariatesta


Intervista a Gianmaria Testa su uncastellanomidisse.it
http://www.uncastellanomidisse.it/



Gianmaria Testa al Premio Tenco 07 (Rai Due)
http://www.youtube.com/watch?v=Phz5b_rPJ8s

Data del tour per presentare l’ultimo CD “SOLO-dal vivo”, registrato all’Auditorium Parco della Musica di Roma (Teatro Studio) il 3 maggio 2008.

PREVENDITE
I biglietti sono disponibili presso il negozio di dischi, l’Opera al Nero, IN via Garibaldi 14 Castelfranco Veneto (0423497790) e presso il negozio di commercio equo-solidale Pace e Sviluppo, IN Via XXIX Aprile 29 (0423724950, al costo di 12 euro (10 per i soci Coop Adriatica).

Per info: Alberto, Cell n 345.30.93.314; Mail buenainfo@buenaventura.it –

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Promotori
Circolo Culturale Buenaventura – www.buenanvetura.it
Arca CNA - www.arca-cna.com

Patner
AILUROS Teatro delle nebbie
Ass.ne di volontariato La Locomotiva - www.lalocomotiva.too.it/
Ass.ne Cittadine/i per Pace
Ass.ne culturale Porte Aperte http://associazioneculturaleporteaperte.blogspot.com/
Circolo Culturale Auser "Pacifico Guidolin"
Coordinamento del Volontariato della Castellana - www.cvcastellana.org
Circolo fotografico culturale El Paveion - www.elpaveion.it
Gruppo Naturalistico Le Tracce
Ass.ne culturale La Stanza - http://lastanza.tempodelsogno.com
Barco Mocenigo - www.barcomocenigo.it
Coop Pace e Sviluppo - www.pacesviluppo.it
OPERA AL NERO, negozio di dischi

Media partner
Nastro webzine - www.nastrowebzine.com/
Deliriocaneva - www.deliriocaneva.com/
Made in pop - www.myspace.com/madeinpop
Musica attiva – www.musicaattiva.com
Uncastellanomidisse - www.uncastellanomidisse.it/ - - -

Sponsor
Coop Adriatica - www.e-coop.it/
Teatro dei Sapori via Garibaldi 17, Castelfranco Veneto - www.teatrodeisapori.it/
Albergo Roma Via F.Filzi 39, Castelfranco Veneto - www.albergoroma.info/
Mezzanota Strumenti Musicali Ad Altavilla, Bassano e Valdagno - www.mezzanota.it/
Assicurazione La Fondiaria di Paola Ronzon - Borgo Vicenza 42, Castelfranco Veneto – info@ronzon.it Tel 0423 720390
Birrosteria “il Principe in bicicletta” via Castellana 1 San Vito di Altivole - www.ilprincipeinbicicletta.it/