martedì 7 maggio 2013

giovedì 9 maggio - COSMOPOLIS



COSMOPOLIS

Regia: David Cronenberg
Canada/Francia/Italia/Portogallo, 2012, colore
Cast: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Mathieu Amalric, Jay Baruchel, Kevin Durand, Paul Giamatti

Per andare dal suo barbiere di fiducia, il giovane miliardario Eric Packer è costretto ad attraversare, all’interno della sua limousine, una Manhattan in rivolta, mentre l’intera città di New York è paralizzata per l’arrivo del presidente statunitense e per il funerale di una star musicale afroamericana. Molti bizzarri incontri ed uno strano destino lo attendono.

Girato prevalentemente a Toronto, Cosmopolis non vuole essere una ricostruzione storica né tantomeno ambientale delle cause della crisi economica che, ancora oggi, attraversa l’intero pianeta. Tanto più che il romanzo di Don DeLillo, da cui il film è tratto, viene pubblicato nel 2003 e risulta ambientato nel 2000, quindi molto prima che la crisi stessa, almeno così come ci viene raccontata dai media, abbia inizio. Lo spazio metropolitano, lungi dal risultare mera ricostruzione documentaria della Grande Mela, diviene, nel film, spazio qualsiasi, privo di qualunque connotato o riferimento riconoscibile. La vicenda narrata assume, almeno in superficie, le strutture e le dinamiche di una folle allegoria del potere finanziario contemporaneo, al di là, lo si è detto, di qualsiasi individuazione spazio-temporale precisa. I diagrammi, gli schemi ed i numeri, che si affacciano dagli schermi dei computer installati nella limousine di Eric, sono però l’unico effettivo contatto con l’evanescente mondo della finanza, oltre a molti dei deliranti dialoghi che punteggiano l’opera. La limo appare come un’automobile-santuario che custodisce (e protegge, essendo blindata ed insonorizzata) i feticci ed i simulacri di un mondo astratto, freddo, opaco e distante – ancorché letale per l’uomo – insieme ad uno dei loro sacerdoti. È all’interno di essa che si svolge gran parte della vicenda narrata. La crisi c’è, ma non si vede e la sua essenza forse si colloca nella sua assenza. Al limite essa viene psicoticamente verbalizzata ed evocata dai personaggi che transitano attraverso l’immensa automobile di Eric: una cattedrale, un confessionale o, per certi versi, lo studio di uno psicanalista. È attraverso questa verbalizzazione dell’assente che prende forma l’effettiva distanza esistenziale, oltre che fattuale, fra l’uomo e l’astratto, ottuso universo finanziario. Più che un film sulla crisi economica, Cosmopolis è, in realtà, un’opera sulla crisi d’identità e sulle aberrazioni psichiche che caratterizzano gli uomini di potere della nostra epoca.
L’ossessione di controllo che pervade Eric ed i suoi collaboratori (esperti informatici e di matematica finanziaria, “filosofi monetari” oltre alle sue guardie del corpo) trova un ostacolo insormontabile nell’impenetrabilità ed imprevedibilità del reale e degli eventi che vi accadono. Se la realtà concreta è permeata da tale imponderabilità, altrettanto, se non di più, lo è la realtà virtuale dei numeri e degli astrusi calcoli probabilistici, statistici e delle ermetiche equazioni che regolano i flussi ed i mercati finanziari. Eric, i suoi sottoposti ed il suo impero vedono sgretolarsi le proprie fondamenta per non aver saputo prevedere l’andamento sul mercato dello yuan cinese. Ogni possibilità di calcolo e di conseguente controllo del mondo si è inceppata di fronte alle variabili impazzite di un universo solo apparentemente regolare ed ordinato come quello matematico. L’Io di Eric e degli altri personaggi che gli ruotano attorno, così come le loro identità, vengono perciò a frantumarsi ed a frammentarsi per non aver saputo reggere il peso dell’evanescenza dei loro saperi, delle loro concezioni del mondo e delle loro friabili certezze. Ecco perché l’intero film può essere letto come un’ipertrofica seduta psicanalitica dei personaggi presso il guru Eric, ma anche di quest’ultimo presso quell’attento ed a tratti beffardo osservatore entomologico che è il regista stesso: David Cronenberg.
Il viaggio attraverso la metropoli diviene quindi un percorso regressivo che tocca tutti i personaggi della corte del sovrano Eric, impegnati a riscoprire la loro fase orale (li vediamo sovente impegnati a suggere cannucce, sgranocchiare noccioline, trangugiare bevande) ed il linguaggio, che nel loro caso è, come nell’infanzia, carico di significati mitici e ludici. I monitor dei computer – con i loro arabeschi digitali – ed il loro mondo di riferimento, costruito su un incorporeo controllo a distanza che identifica denaro, potere, frenetica e meccanica ambizione altro non sono che uno smisurato campo da gioco, evocato attraverso un vero e proprio gergo semi-esoterico per iniziati, esattamente come accade in quelle gang giovanili, dove si gioca, appunto, a fare gli adulti.
Ancora più complesso risulta il percorso di (ri)scoperta e ridefinizione del sé da parte di Eric. Tale personaggio, definito somaticamente dai tratti anodini di Robert Pattinson, appare fin da subito come un essere alieno in un ambiente similmente alieno (grattacieli e palazzi anonimi accanto alle altrettanto anonime limousine in fila e tutte uguali) e disumanizzato, perciò perfettamente organico ad esso. L’ostinato viaggio verso il salone di barbiere della sua infanzia, dall’altra parte della città, non è altro che l’indizio più immediato, fra i molti che punteggiano il film, della vera e propria patologia che interessa il protagonista: il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, che si esplica come la ripetizione rituale, maniacale e meccanica di azioni, che hanno lo scopo sia di esprimere il proprio controllo sul mondo, per ristabilirne un ordine che si paventa come perennemente compromesso, sia in definitiva di esorcizzare l’imprevedibilità e l’ostilità del reale. Cosmopolis, per molti versi, può essere a tal proposito definito come un torbido trip dal razionale all’irrazionale o dalla com-pulsione alla (riscoperta della) pulsione attraverso una serie di tappe, che gradualmente portano il protagonista a liberarsi delle proprie ossessioni per riabbracciare, almeno fin dove gli riesce, la dimensione originaria e libera del caos, l’urgenza di esperire la propria corporeità attraverso il piacere, il dolore e, magari, la morte. L’obiettivo ultimo, probabilmente inconsapevole, di Eric è quello di fronteggiare l’irrazionalità del reale attraverso una altrettanto prepotente riaffermazione folle del Sé, o meglio del proprio Es.
Due vie parallele possono essere determinate, nel corso del film, per individuare questo percorso di mutazione psicofisica. La prima può essere identificata come il passaggio dai segni dell’ordine ai segni del disordine. Tutta la vita di Eric è scandita, fino allo svolgersi degli eventi narrati nel film, dal controllo maniacale di ogni fase ed aspetto, sia pubblico che privato, della sua giornata. Il suo stile è impeccabilmente elegante ed asettico, così come il suo viso ed il suo  taglio di capelli e non a caso il racconto inizia in medias res, proprio mentre egli sta per recarsi dal suo barbiere. Quotidianamente, si sottopone ad un check-up completo per monitorare lo stato della sua salute. In ogni suo spostamento viene seguito da un complesso apparato di security, che egli, controllato da esso, a sua volta controlla (fino all’indistinguibilità del controllore e del controllato). Eric pare inoltre minacciato da un oscuro individuo, che vuole la sua morte: ecco anche perché le maglie delle difese approntate dalle guardie del corpo risultano estremamente spesse. La gran parte della sua frenetica esistenza è comunque soprattutto dedicata all’ispezione certosina dell’andamento del suo dominio finanziario tramite i computer. L’elemento che, probabilmente, innesca la mutazione di Eric è la caduta vertiginosa del suo impero, per non essere stato in grado, come accennato, di prevedere i flussi dello yuan. Ecco allora cominciare la proliferazione dei segni del disordine. Dapprima egli comincia a smarrire alcuni oggetti-chiave del suo look: occhiali da sole, giacca, cravatta; poi è la volta della sua limousine, che viene a più riprese lordata dai manifestanti che riempiono le strade; successivamente è il suo faccino indolente e viziato a subire l’oltraggio di una torta in faccia da parte di un manifestante particolarmente fantasioso; infine è egli stesso a contribuire al prevalere del caos, quando uccide il capo della sua sicurezza e poi quando, una volta dal barbiere, interrompe la seduta, uscendo col taglio incompleto. Da questo punto in poi, Eric manifesta apertamente quella che Freud indicherebbe come pulsione di morte. Tale atteggiamento da cupio dissolvi crea però un cortocircuito nella definizione del personaggio, che appare, paradossalmente e per la prima volta, libero e vivo, anche se pur sempre in una deriva mentale ormai irreversibile.
L’altra via per comprendere la mutazione psicofisica di Eric è, invece, di matrice più strettamente psicanalitica. La vita ossessivamente programmata ed ordinata del protagonista mostra dei segni di squilibrio là dove cominciano ad affacciarsi dei segni di regressione psichica e di predominio della pulsione. L’intrecciarsi ed il sovrapporsi confuso delle tre fasi formative originarie dell’Io nell’infanzia, orale, anale, fallica conducono Eric a liberarsi progressivamente dei suoi legami istituzionali da adulto, per condurlo verso un’orgia di sensazioni, progressivamente più estreme, che sembrano risvegliarlo dal suo meccanico torpore per condurlo però ad una dimensione di totale ed allucinato spaesamento. Anch’egli, come gli altri personaggi, trae diletto dall’oralità (sugge, beve, sgranocchia ed ha sempre fame) e soprattutto risulta erotizzato dal proprio logos, dal piacere di agitare la lingua per farne uscire suoni armoniosi, estremamente selezionati e dal significato suggestivo, appare inebriato dal gusto di parlare e di ascoltarsi, in una dimensione in cui la parola non ha ancora raggiunto la maturità del dia-logos, ma appare ancora fortemente ancorata alle sue possibilità evocative ed ipnotiche. L’esame prostatico, durante il suo check-up giornaliero, rivela invece, da parte di Eric, l’espressione di una libido legata anche all’analità, oltre a fargli scoprire l’asimmetricità della sua prostata (elemento decisivo che riassume in sé molti dei significati del film). Infine, gli svariati rapporti sessuali avuti, da parte del protagonista nel corso della giornata[1], con donne di varie forme ed età, evidenziano una fallocentricità, nella quale non c’è posto per un’autentica reciprocità fra persone vive, ma in cui, invece, Eric si percepisce come soggetto assoluto, esattamente come accade nella corrispondente fase psicosessuale freudiana.
L’ultimo tassello per completare il complesso quadro si situa nella ricerca, da parte del protagonista, dell’uomo che lo minaccia, che altri non è che un suo ex sottoposto, ormai licenziato ed ai margini della società, che si fa chiamare Benno Levin. Forse, inconsciamente, Eric è da quest’ultimo che, fin dall’inizio, sente l’urgenza di andare. Una volta abbandonato il salone del barbiere, egli vaga per il vecchio e solitario quartiere fino a quando non vengono esplosi dei colpi di pistola nella sua direzione: è Benno ed Eric intuisce che è giunto il momento di confrontarsi con lui. Sale fino al fatiscente appartamento di quest’ultimo per incontrarlo e, magari, per cominciare a capire. Ciò a cui si assiste nella sequenza finale, vale a dire il “duello” fra Eric e Benno, altro non è che una bizzarra rappresentazione della fase dello specchio freudiana[2]. Eric si trova di fronte ad un’immagine fortemente deformata di sé: Benno (uno straordinario Paul Giamatti), invecchiato, brutto, sporco, incattivito, ma soprattutto vivo. Anch’egli ha, come Eric, la prostata asimmetrica ed anch’egli, per molto tempo, ha creduto nei numeri, nella loro assolutezza e regolarità. Ora, però, ha smesso di credere e si è rassegnato all’asimmetria del reale, alla sua irregolarità, come un destino ineluttabile. Forse vorrebbe solo che qualcuno lo ascoltasse per capire. È come se Benno, novello ritratto di Dorian Gray, avesse per molto tempo accumulato tutto lo squallore, la turpitudine, la bruttezza e l’abbrutimento del suo capo per preservarlo e mantenerlo integro e perfetto, caricandosi anche del fardello della vita di Eric e del peso della sua coscienza. Ed è come se, fino ad allora, Eric non avesse realmente vissuto, delegando inconsciamente a Benno di subire gli oltraggi del tempo e di un’esistenza dissipata, frenetica e folle. Ora, forse, Eric si trova in quella stanza cadente per recuperare, tutto in una volta, il tempo perduto e la consapevolezza, ma, si sa, il tempo è una pistola puntata alla testa…
Gian Giacomo Petrone
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud


[1] Il racconto rispetta l’unità spazio-temporale aristotelica della tragedia, pur avendo le caratteristiche di una narrazione (anti)epica, in cui il viaggio, anziché essere radicalmente formativo e portatore di conoscenza ed esperienza di sé, non è altro che l’espressione della dissoluzione del soggetto protagonista.
[2] Secondo Freud, il momento originario dell’infanzia in cui il piccolo d’uomo inizia ad assumere coscienza della propria  soggettività e della propria identità si situa, appunto, nella “fase dello specchio”, cioè quando il bambino si ritrova di fronte ad una superficie riflettente, insieme ad un adulto, e riconosce, nell’immagine riflessa, se stesso.

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