mercoledì 9 dicembre 2009

Porcile

Regia: Pier Paolo Pasolini

Fr/Italia, 1969, durata 98 min, colore

Interpreti: Pierre Clementi, Jean-Pierre Leaud, Anne Wiazemsky, Alberto Lionello, Marco

Ferreri, Franco Citti, Ugo Tognazzi, Ninetto Davoli


Porcile si articola in due episodi tra loro intrecciati. Nel primo, ambientato in un’epoca imprecisata (forse il Messico del ‘500) e il cui set naturale è l’Etna, un uomo (P. Clementi) si dà al cannibalismo e insieme ad un occasionale compagno aggredisce i malcapitati viandanti per nutrirsene. E’ questo un atto simbolico di rivolta, di “anarchia apocalittica” come si evince dalle ultime parole del protagonista quando, ormai catturato, viene condannato ad essere dato in pasto alle fiere: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia”. Al primo episodio storico e “barbarico” si intreccia il secondo moderno e tedesco, girato nella villa Pisani di Stra (VE).


L’umore malinconico e gli strani comportamenti di Julian (J.P. Leaud), figlio di una famiglia di grandi industriali, sono fonte di preoccupazione per i genitori e per Ida, la ragazza, aderente al movimento studentesco, che lo ama non ricambiata. Il padre del ragazzo verrà ricattato dall’avversario industriale, un ex-criminale nazista, venuto a conoscenza delle inusuali frequentazioni di Julian nel porcile della tenuta e di quel che di scandaloso nascondono. Attraverso un montaggio parallelo, le due storie giungono contemporaneamente ad un epilogo luttuoso. Morale (secondo le parole dello stesso autore): “La società –ogni società- divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti: i figli devono essere obbedienti e basta”.

Come Teorema (1968), anche Porcile è un film-saggio, di intenzioni espressamente polemiche e ugualmente pessimista nelle conclusioni. Pasolini vi espone le proprie riflessioni sui temi della diversità e dell’intolleranza, del nuovo capitalismo edonista, dell’autoritarismo e del trasformismo della classe borghese e dei padri (qui da criminali nazisti a ben accetti borghesi). Riflessioni che, all’inizio degli anni ’70, sarebbero confluite nella sua attività di giornalista (vedi “Scritti corsari”) e avrebbero trovato un’ultima drammatica espressione in Salò o le 120 giornate di Sodoma.


Nel saggio “Empirismo eretico”, Pasolini elabora, ricorrendo alla linguistica, l’importante distinzione tra cinema di prosa e di poesia. Nel cinema di prosa (es. Ford), è la storia raccontata ad avere importanza e la regia è funzionale al coinvolgimento dello spettatore verso ciò che accade. Il cinema di poesia (es. Antonioni, Godard) vi si distingue per l’impiego nuovo degli elementi filmici (regia, montaggio, fotografia…) finalizzato ad esprimere la soggettività dell’autore, spesso in collisione con la normale coerenza spazio-temporale e comunque con la normale percezione del pubblico: la narrazione è un pretesto per l’emersione dell’interiorità del regista e della sua personale visione del mondo. A detta dell’autore, Porcile sarebbe, tra i suoi film, l’unico esempio di questo cinema di poesia, insieme (forse) a Uccellacci e uccellini (1966). Troviamo riscontro a questa affermazione se guardiamo alla particolare struttura narrativa “raddoppiata” dei due film: in entrambi il senso dell’opera, altrimenti oscuro, scaturisce dalla combinazione degli episodi. In Porcile è rilevante (e straniante) la differenza dei registri stilistici adoperati: l’uno aulico e severo, l’altro “geometrizzante” e grottesco, con richiami espliciti a Grosz e Brecht. Nel II episodio alcuni dialoghi sono in rima; il I episodio è invece quasi interamente muto. La distanza dal cinema “classico” (o di prosa) è netta: Pasolini non permette allo spettatore di essere ingenuo e la difficoltà del suo cinema sta proprio in questa sua intransigenza.


Ma Porcile è sopratutto una storia di solitudine: quella di chi non è in sintonia con il mondo in cui vive e difende strenuamente la propria diversità. L’ispirazione del film non deriverebbe tanto dal ricordo della contestazione del ’68, contro cui il Nostro si era scagliato nella celebre poesia Il PCI ai giovani, ma sembra piuttosto nascere dall’amarezza del poeta di fronte al disfacimento del proprio “sogno di una cosa”, ciò che ha amato e quello in cui ha creduto. La fine del mondo delle borgate, travolto dal nuovo corso storico, e la crisi dell’ideologia marxista sono due dei motivi di questa amarezza.


Nel film sono contrapposti due mondi: uno barbarico e antico, l’altro borghese e capitalistico. Si tratta di una contrapposizione ricorrente nell’opera di P.P.P. Ma qui, nonostante la differenza tra l’aperta rivolta del personaggio di Pierre Clementi e l’incertezza amletica di Julian, quello che conta è l’eterno ripetersi della medesima repressione da parte della società, sia essa antica o moderna. In ombra, un terzo personaggio è spettatore del perenne scontro tra padri e figli, tra società repressiva e membri ribelli: è la classe contadina e sottoproletaria. “I contadini, per usare un linguaggio d’altri tempi, sono i personaggi positivi del film. […] Sono in grado di capire ciò che la borghesia non sa riconoscere, il mistero che le sfugge, il senso del sacro che, per essa, è puramente verbale”.

Buona visione!


Andrea Taccari

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud

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