martedì 8 dicembre 2009

H. P. Lovecraft’s Road to L. – Il mistero di Lovecraft.


Regia: Roberto Leggio, Federico Greco

Italia, 2005, colore

Durata: 86’

Cast: Roberto David Purvis, Roberto Leggio, Federico Greco, Simonetta Solder, Fausto Sciarappa, Fabrizio La Palombara, Gianni Sparapan, Donatella Ceccarello, Valentina Lodovini


1997: Andrea Roberti, studente presso la cattedra di Storia delle tradizioni popolari di Padova, sta redigendo la propria tesi di laurea, fondata sull’ipotesi di una stretta contiguità fra le cosmologie e le mitologie create dallo scrittore nordamericano Howard Phillips Lovecraft e quelle che costituiscono l’orizzonte tematico ed ambientale della narrativa popolare veneta (polesana in particolare), nota come “racconti del Filò”. Il 16 ottobre dello stesso anno, in riva al Po, nei luoghi in cui tali tradizioni hanno trovato alimento e si sono tramandate, misteriosamente scompare.

2002: il regista Roberto Leggio scova, in una bancarella di Montecatini, un manoscritto in inglese firmato “Granpa Theo”, uno degli svariati pseudonimi usati da Lovecraft nella sua carriera. Si tratta di un diario di viaggio e sembra indicare, contrariamente a quanto sostenuto dalle biografie ufficiali, secondo le quali Lovecraft non si sarebbe mai mosso dall’America del Nord, la concreta possibilità che lo scrittore abbia viaggiato e soggiornato in Veneto, in prossimità del delta del Po, in una misteriosa località indicata come “L.”. In tale manoscritto si fa esplicito riferimento alla tradizione popolare del “Filò”.

2004: Roberto Leggio, insieme a Federico Greco ed a David Purvis, iniziano a lavorare ad un documentario che, nelle loro intenzioni, dovrebbe approfondire e confermare l’ipotesi del viaggio in Polesine di Lovecraft. L’ostilità della popolazione locale unita alla scoperta della scomparsa dello studente e ad una serie di inquietanti circostanze li condurranno all’interno del mondo chiuso e minaccioso della profonda provincia veneta, che tanto sembra avere in comune con quelli descritti dal “solitario di Providence”.

Caso più unico che raro di mockumentary (dall’inglese mock= falso e documentary= documentario) in cui la componente finzionale viene non di rado superata da quella veridica (con differenze sostanziali rispetto a predecessori più o meno illustri come F for fake di Orson Welles, 1974, Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, 1979 o The Blair Witch Project di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, 1999). In Road to L., alcuni degli avvenimenti descritti, soprattutto lo spunto di partenza, cioè il ritrovamento del manoscritto, hanno una loro radice di attendibilità. L’intenzione iniziale degli autori di verificare e quindi di documentare la loro ipotesi, vale a dire la ricerca di un tipo di verità intesa come mero fatto o come dato oggettivo, viene a scontrarsi con tutta una serie di elementi e variabili che ne modificano strutturalmente gli esiti inizialmente previsti. Nel mondo in cui entrano, i confini fra visibile ed invisibile, fra reale ed immaginario, divengono sempre più labili, indiscernibili. Il documentario che intendono realizzare[1] deve mutare per risultare verosimile, giacché la realtà con cui i nostri si scontrano lo è sempre meno. Solo il racconto di finzione, paradossalmente, sembra in grado di diventare testimonianza verosimile di una realtà che pare aver smarrito ogni coordinata di senso. In altre parole, non si può “documentare” il mistero se non trasfigurandolo.

Lo scambio fra realtà e finzione non è comunque l’unico presente né l’unico a rivestire un certo interesse al fine di sondare con una certa pienezza i temi evocati da quest’opera stratigrafica e complessa. Vi è anche quello fra due diverse, ma strettamente correlate, dimensioni del racconto: quella locale (il Filò) e quella universale (la trasversalità e la diffusione di miti e narrazioni con notevoli somiglianze strutturali ed archetipiche all’interno di comunità, luoghi e tradizioni distanti e molto spesso incomunicanti fra loro), in un’opera che per certi versi potrebbe anche essere vista come un saggio di mitologia comparata. Da questo punto di vista, non sarebbe nemmeno necessario dimostrare la venuta di Lovecraft in Polesine. Anzi, all’opposto e paradossalmente, volendo porre un confronto fra archetipi mitici così affini, ma partoriti da comunità incommensurabilmente lontane dal punto di vista spaziale, forse, nel caso specifico, sarebbe quasi auspicabile dimostrare il contrario. Elemento questo che equivarrebbe a dire che Lovecraft potrebbe non aver avuto alcun bisogno di visitare il Polesine per evocare un immaginario fantastico già del tutto simile al suo.

In stringente contiguità con il tema appena rimarcato si pongono altri due elementi: quello linguistico e quello xenofobico. Per ciò che attiene al primo, va sottolineato come tutto il film sia parlato in inglese (la lingua “universale” per eccellenza della contemporaneità, la lingua della globalizzazione nonché della colonizzazione culturale operata, ad ogni latitudine, dai paesi anglosassoni, in primo luogo dagli USA) ed in dialetto veneto (forma linguistica che è e non può che essere espressione di un luogo circoscritto a livello geografico, storico, culturale ed antropologico), o in un italiano connotato da un forte accento e da una strutturazione sintattica fortemente dialettali. È uno scambio che marca uno scarto, uno scambio ineguale, un dia-logos mancato. I due gruppi contrapposti nel racconto filmico, la troupe e la popolazione locale, faticheranno a comunicare, fino ad arrivare ad un atteggiamento di aperta animosità degli autoctoni nei confronti dei filmakers. In più, molto presto, anche all’interno della troupe scoppieranno dissidi, rancori e gelosie, anche se non legate alla lingua, in questo caso.

Per quanto riguarda invece l’elemento della xenofobia (dalle parole greche ksenos= straniero, estraneo, ospite e phobos= timore) esso risulta centrale innanzitutto per capire una delle cause primarie capaci di scatenare la potenza dell’immaginazione di Lovecraft: la paura dell’estraneo/straniero appunto. Si tenga presente che Lovecraft era un razzista convinto, un wasp che, una volta trasferitosi a New York per sposarsi ed in cerca di fortuna (senza mai trovarne molta, invero), fu obbligato ad avere contatti con le “razze” che lui giudicava inferiori: ispanici, italiani e niggers (letteralmente “negracci”) come lui stesso li chiamava nei suoi racconti. È da questo contatto forzato che si sviluppa in lui l’immaginario da cui trarranno origine le sue grandiose mitologie nonché tutta quella infinita serie di esseri mostruosi, nati da accoppiamenti ibridi, empi ed innominabili. E, si sa, niente riesce a creare paura più della paura stessa. L’elemento della xenofobia risulta peraltro assai importante per far luce sui moventi, le pulsioni e le reazioni che connotano il problematico rapporto con l’Altro in tutti quei sistemi chiusi, le comunità dell’entroterra veneto così come quelle della provincia americana, non fa differenza (locale ed universale ancora una volta si toccano), in cui chiunque venga da fuori, chiunque sia “foresto” (in un’accezione che accomuna il semplice forestiero allo straniero tout court) viene nel migliore dei casi guardato con sospetto, nel peggiore con sgomento.

Ecco che allora i volenterosi ragazzi della troupe si ritrovano catapultati in un universo da incubo che somiglia molto a quello descritto dallo scrittore di Providence. Volevano seguire le orme di Lovecraft e si ritrovano dentro ad uno dei suoi racconti o forse direttamente nel cuore del suo mondo immaginario, magari proprio là dove “[…] il morto Cthulhu attende sognando.”[2]

Gian Giacomo Petrone

Gruppo Cinema Arsenale Rosebud



[1] Documentario che comunque vedrà la luce più o meno contemporaneamente a Road to L. (col titolo: H. P. Lovecraft – ipotesi di un viaggio in Italia) e che ne costituisce di fatto un’appendice, un controcanto, un elemento utile per comprendere meglio la genesi dell’opera maggiore e non viceversa, come probabilmente era nelle intenzioni iniziali degli autori.

[2] Da H. P. Lovecraft, The Call of Cthluh, 1926.

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