martedì 26 gennaio 2010

Morte a Venezia

Morte a Venezia

Regia: Luchino Visconti

Italia/Francia, 1971, durata 135 minuti, colore

Interpreti principali: continua»

Dick Bogarde (Gustav Von Aschenbach), Silvana Mangano (la madre di Tadzio), Bjorn Andersen (Tadzio), Romolo Valli (il direttore dell’albergo), Marisa Berenson (la moglie di Aschenbach).

Musica: brani della Terza e della Quinta Sinfonia di Mahler.

Il film è complesso e mostruosamente ambiguo nell’ efficace sdoppiamento, come in un gioco di specchi (vedi anche “Senso”), e di slittamenti semantici dei nomi : Gustav, il protagonista, porta lo stesso nome di Mahler, Visconti stesso tende a volte ad identificarsi con Aschenbach e con Thomas Mann. Uno strano incrocio di autobiografie, ma soprattutto una struggente e comune nostalgia di un mondo che sta decadendo e che sta per finire. Non a caso è stata scelta la musica di Mahler: “una dolente consapevolezza della caducità dei beni terreni, una disperata nostalgia della vita effimera, eppure sentita come unica ricchezza dell’uomo”; una musica focosa, piena di enfasi e di struggimento, che tende a dilatarsi e a guidare, a trascinare letteralmente le immagini.

Il film nella produzione viscontiana si colloca verso la fine degli anni della sua carriera e si trova al centro di una sorta di trilogia mitteleuropea, depositaria di una cultura a lui molto cara, che comincia con “La caduta degli dei” e termina con “Ludwig”.

Inizia con un movimento lento e sontuoso, l’arrivo del piroscafo a Venezia e già dal suo incipit il film asseconda la musica (l’adagetto della Quinta Sinfonia), il cui motivo evoca un senso di fatalità; è come se anticipasse la catastrofe, quella stessa che attraversa il volto tormentato del protagonista: una musica del destino. Il senso di disagio che il protagonista manifesta mette in evidenza la tormentata crisi che sta vivendo e ne prefigura lo stato di vera e propria “malattia”, altro elemento importante nell’economia del testo filmico. Anche qui i rimandi sarebbero innumerevoli: pensiamo alla “Montagna Incantata” e al “Doktor Faustus” di Thomas Mann o a Nietzsche.

Il film nella prima parte, almeno fino alla prima falsa partenza, in modo rigoroso con dei morbidi movimenti di macchina, con delle inquadrature perfettamente pensate e con la solita attenta e precisissima messa in scena denota una potente affettività nei confronti di un mondo borghese vicino al regista per storia personale. Egli ne conosce i vezzi e le abitudini, l’autocompiacimento estetico ma anche l’ipocrisia, il narcisismo e l’illusione che l’arte possa tradursi in una sorta di raggiungimento di una superiore condizione spirituale. A questo mondo Visconti non risparmia una critica a tratti feroce nella seconda parte del film, ad esempio quando il protagonista si trasforma in una maschera grottesca e quasi oscena, alla stregua dei guitti che intrattengono gli ospiti dell’albergo attraverso una sorta di demenziale sceneggiata.

A Thomas Mann, dal cui omonimo romanzo è tratto il film, Visconti ha sempre riconosciuto alcune delle sue stesse contraddizioni: quel suo essere nel contempo decadente e realista, borghese e narratore della crisi dei valori borghesi.

Credo che quest’ opera sia stata molto importante per il regista perché attraverso un gioco mimetico mette in discussione il suo stesso vissuto che come autore fondamentalmente è legato al melodramma e all’Ottocento nonostante la sua breve appartenenza alla rivoluzione neorealista; infatti, soprattutto nella seconda parte e nel frequente (anche eccessivo) uso del flashback, ove aggiunge un artista alter ego iper-romantico-dionisiaco, il musicista (scrittore) nel pieno della sua crisi viene stravolto dal dissidio di chi, per quanto durante la sua esistenza abbia cercato di raggiungere una sorta di purezza morale, si trova ingabbiato, invece, nel labirinto di una passione struggente ed autodistruttiva che manifesta, nascondendosi, un profondo senso narcisistico.

Trama: 1911. Reduce da un periodo di crisi, il sussiegoso musicista Gustav Von Aschenbach approda al Lido di Venezia per una solitaria vacanza. Tra gli ospiti dell’Hotel des Bains, attira la sua attenzione una famiglia polacca, di cui fa parte un bellissimo adolescente: Tadzio. Il professore comincia a seguirlo con lo sguardo, nell’albergo e sulla spiaggia, e ne è ambiguamente ricambiato. Turbato da questa passione e oppresso dal clima di scirocco, Aschenbach si risolve a partire. Ma appena un contrattempo per la spedizione del bagaglio gliene offre il pretesto, torna al Lido e al suo segreto gioco di sguardi e di inseguimenti. Questi lo conducono a Venezia, le cui calli rivelano gli inquietanti segni di un’epidemia. Vincendo la generale cortina di omertà, Aschenbach apprende che la città è in preda a una pestilenza. Si propone di avvertire del pericolo i polacchi; ma poi, pur di rivedere l’amato, resta e tace. Malato, e truccato come un grottesco zerbinotto per mascherare i segni dell’età, segue l’ultima volta Tadzio sulla spiaggia. Mentre l’efebo sembra indicargli un indistinto punto all’orizzonte, Aschenbach muore: il trucco disciolto sul viso, come una maschera.

Note: secondo suggestivo ritorno di Visconti a Venezia, dopo “Senso” del 1954. Una Venezia magnificamente illustrata, non solo la località del Lido ma anche la città stessa attraverso molteplici punti di vista che esaltano, con l’aiuto dei riflessi dell’acqua, la sua unicità.

Ambientato per buona parte dentro l’Hotel des Bains e sulla spiaggia e in una ricostruzione agli Alberoni, lembo estremo del Lido di Venezia, che produce uno strano effetto cartolina.

Certamente la torbida e ambigua vicenda e la musica di Mahler caricano Venezia di ulteriori potenti suggestioni.



Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
Paul Zilio

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