giovedì 10 febbraio 2011

IL GIORNO DEGLI ZOMBI

IL GIORNO DEGLI ZOMBI (Tit. or.: DAY OF THE DEAD)

Regia: George A. Romero

Usa, 1985, colore

Durata: 102’

Cast: Lori Cardille, Terry Alexander, Joseph Pilato, Richard Liberty, Jarlath Conroy, Antone Di Leo.

Nel terzo capitolo della saga romeriana, la terra è ormai preda dei morti viventi. Asserragliato in un bunker sotterraneo, resiste un residuo di umanità. Al di fuori, ovunque, i “ritornanti”. Alcuni scienziati, sotto la guida del dottor Logan (Liberty), studiano le cause del contagio e ricercano affannosamente delle contromisure, mentre un manipolo di militari controlla l’avamposto, procurando le “cavie” per gli esperimenti. Il potere della conoscenza e quello delle armi, cioè della forza bruta, non tarderanno a scontrarsi.

L’inferno è per i vivi, la terra è per i (non)morti. Abitanti di un sottosuolo, tanto metaforico quanto fattuale, i superstiti di un’umanità stanca ed alla deriva sono costretti ad auto-recludersi per sopravvivere e, magari, per illudersi che lì fuori ci possa essere ancora qualcuno in grado di venire in loro soccorso.

Nel primo capitolo della serie, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), il contagio era solo all’inizio, ma l’incapacità degli uomini di unirsi per fronteggiare la minaccia e di capirne la portata apriva le porte della tragedia, dell’inferno, appunto. Dawn of the Dead (Zombi, 1978) non fa altro che estendere l’intensità del pessimismo romeriano: il contagio si va diffondendo, irreversibilmente ormai, su tutto l’orbe terracqueo. I sopravvissuti sono in numero sempre più esiguo e sempre più isolati, anche perché mossi da motivazioni unilaterali ed egoistiche. In questi due primi capitoli, gruppi armati di vigilantes, o anche di militari istituzionalmente legittimati, anziché tutelare la comunità e proteggerla, agiscono spesso per conto proprio, mossi perlopiù da ideologia, paura, razzismo e talora da biechi scopi personali, ma anche, semplicemente, dal piacere di sparare a dei bersagli. Sovente, non riescono ad emendarsi neppure quei personaggi che potrebbero mantenere viva una pur flebile occasione di riscatto per l’umanità.

In Day of the Dead, rimangono a fronteggiarsi i rappresentanti di due istanze apparentemente remote: quella scientifica e quella militare, ma in realtà accomunate dalla stessa smodata ambizione di controllo, quindi di potere. Il dottor Logan – chiamato lucidamente “Frankenstein” dai soldati, che ne disprezzano l’intelligenza e le attività – utilizza uno zombi-cavia, Bub, particolarmente ricettivo, per tentare di verificare se sia possibile istituire un dialogo, o perlomeno un rapporto padrone-servo/padrone-animale, con i revenants. Per farlo, utilizza l’esca della “ricompensa”. Se Bub reagirà positivamente agli stimoli, riceverà una razione della tanto agognata carne umana fresca, a cui anela ogni zombi che si rispetti. Per la bisogna, Logan impiega i resti, opportunamente surgelati, dei soldati morti, ma non ancora passati sull’”altra sponda”. Le altre sue attività si concentrano invece perlopiù nello studio delle reazioni fisiologiche e nervose di corpi di zombi, interi o sezionati, sottoposti a stimolazioni elettroniche (come, appunto, faceva il novello Prometeo Victor Frankenstein). Nonostante i metodi poco ortodossi e quantomeno macabri, Logan sembra raggiungere qualche apprezzabile risultato. Dall’altra parte si colloca Rhodes (Pilato), il comandante del presidio militare, tanto arrogante e pronto a sacrificare gli altri, quanto codardo ed opportunista. L’unica legge che conosce è quella della forza e della violenza, che però delega ai suoi sottoposti, non essendo in grado di esercitarla in prima persona. Il suo maggiore segno di debolezza è rintracciabile, probabilmente, proprio nel suo girare perennemente appesantito da pistole, fucili, caricatori e vari ammennicoli bellici. Gli altri soldati, a parte il sensibile e debole Miguel (Di Leo), sono tutti della sua stessa risma. Sia la scienza che l’esercito cercano vanamente di fronteggiare una minaccia che nessun intelletto né alcuna arma possono sconfiggere, perché il morbo oscuro che si è diffuso alligna, probabilmente, nella natura malsana dell’uomo stesso e, forse, altro non è che la punizione di un dio. È John (Alexander), il pilota-filosofo di colore, a definire con molta saggezza ciò che sta accadendo, mentre dialoga con la coraggiosa Sarah (Cardille), di certo la mente più lucida all’interno del gruppo dei ricercatori scientifici: “Tu non potrai mai capire, così come gli uomini non hanno mai capito, perché le stelle sono là dove sono. Non è compito della specie umana penetrare il mistero della vita. Quello che stai facendo è una perdita di tempo e il tempo è tutto ciò che ci è rimasto […]. Noi siamo stati puniti dal Creatore. Ci ha lanciato una specie di maledizione, affinché potessimo vedere come è fatto l’inferno”.

Romero, di fatto, con la sua “esalogia” sugli zombi (o doppia trilogia, se si vuole, giacché un ventennio separa l’ultimo dei primi tre capitoli da quelli realizzati in anni recenti, a partire dal 2005: Land of the Dead, Diary of the Dead e Survival of the Dead) descrive, aggiornandola magistralmente ai tempi, la parabola discendente del sogno americano e conseguentemente di quello occidentale. È la società del “produci, consuma, crepa”, evocata da Giovanni Lindo Ferretti,[1] della militarizzazione delle città, delle ronde contro i reprobi della società, dell’idiozia dei mass media, che tentano grottescamente di spiegare e raccontare il fenomeno della “zombificazione” del mondo – quando ne sono essi stessi parte e, talora, causa – e di farne, contemporaneamente, uno spettacolo: la “morte in diretta” della civiltà.

Infine, non vi è poi molta differenza fra i vivi morenti ed i morti viventi, giacché sia gli uni che gli altri sono mossi da pulsioni più o meno innominabili. I primi dalla bramosia di potere, di possesso e consumo, nonché da quella di essere predatori (finendo peraltro spesso col diventare prede delle proprie prede), ludico passatempo, con reminiscenze hobbesiane (homo homini lupus), e forse l’espressione più lampante del potere, appunto: quello di vita e di morte sugli altri, con l’evidente e quasi comico paradosso di desiderare di uccidere chi è già morto. I secondi, a loro volta, sono animati dall’impulso irrefrenabile di divorare carne umana vivente (si badi bene: i revenants non si attaccano né si divorano tra loro e soprattutto non hanno alcun effettivo bisogno di nutrirsi, visto che sono morti, ma desiderano farlo, irresistibilmente) e di ripetere ottusamente (ma non è così, troppo spesso, anche per la controparte dei vivi?), meccanicamente, gesti ed azioni, che, per loro, sono reminiscenze dell’esistenza e della quotidianità precedenti. Gesti ed azioni svuotati, se mai ne avevano avuto uno, di ogni significato. Il fatto è che, forse, se è vero che i morti viventi regrediscono ad uno stadio animale o pre-umano, e quindi non possono subire un giudizio né una sanzione di portata morale, è anche vero, invece, che gli esseri umani, nel pieno possesso delle loro facoltà intellettive e raziocinanti, dovrebbero elevarsi dal rango di bestie. Sciaguratamente, in molti casi, così non è, specie in situazioni estreme. È probabile allora che non siano tanto gli zombi ad essere un grottesco simulacro dei viventi, ma questi ultimi a possedere in sé i semi, i germi di una zombificazione, veri e propri morti-vivi che camminano, in attesa di raggiungere il compimento del loro destino.

Gian Giacomo Petrone

Arsenale Rosebud



[1] Ex leader dell’ormai sciolto (ed a tratti redivivo con altro nome, un altro esempio di revenant) gruppo punk italico CCCP.

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