martedì 15 febbraio 2011

REPULSION - 3 febbraio 2011

Regia: Roman Polanski

Gran Bretagna, 1965, b/n

Durata: 104’

Interpreti: Catherine Deneuve, Yvonne Furneaux, John Fraser, Ian Hendry, Patrick Wymark.

Carol, una giovane e psicotica manicure di origine belga, ma in trasferta a Londra, vive con estremo disagio la propria condizione di donna. La paura nei confronti del genere maschile, che sfocia in una vera e propria sessuofobia, la condurrà oltre le soglie della follia. Male incoglierà agli uomini che avranno la (disav)ventura di incontrarla.

Esse est percipi. Essere è essere percepiti. Parafrasando, estendendo e rielaborando l’assunto di George Berkeley, è possibile giungere al cuore dell’enigma della (nostra) visione. Esistiamo non solo come soggetti percipienti, in grado di pro-porre il mondo – vale a dire, ponendocelo innanzi come oggetto del nostro conoscere – ma anche come enti percepiti. Promiscuità di volti, corpi, sguardi, in cui i vettori comunicativi si moltiplicano, manifestandosi come reciprocità. Nessun punto di osservazione (nessun occhio) può costituire un luogo privilegiato dal quale vedere e giudicare la realtà e gli individui che la abitano, per il semplice fatto che, laddove si moltiplicano all’infinito i centri, non ne esiste più alcuno. Ogni vivente, ciascun angolo del globo non sono altro che le periferie di un mondo a-centrato.

Nello specifico, Repulsion potrebbe essere letto come la storia di una percezione mancata o continuamente rinviata fino a pervertirsi in sensazione distorta, allucinatoria. Si tratta di una mancanza di volontà o di capacità della protagonista di rapportarsi, percettivamente appunto, all’ambiente circostante fino a giungere al capovolgimento paranoico della sua relazione con l’esterno, che la conduce ad ingigantire le sue ossessioni fino ad arrivare a non essere più in grado di distinguere la realtà dalle contorsioni operate dalla sua psiche, che si traducono in abbagli visionari ed oscure farneticazioni. Di fatto, Carol nega la sua appartenenza al mondo, il suo esserne parte, sia come essere umano in generale (un rapporto comunicativo ed esistenziale vissuto attivamente la lega esclusivamente ed in modo morboso alla sorella Helen, mentre, nei confronti di tutte le altre persone, che incontra o frequenta, il suo atteggiamento, nel migliore dei casi, è di sostanziale ed apatica passività), sia soprattutto come donna (verso tutti i personaggi maschili che costellano il film, il suo comportamento è conflittuale, marcato dal rifiuto, dal terrore, dalla repulsione, appunto).

A partire dallo svuotamento del (mondo attraverso quello del) proprio sguardo – opaco, vuoto, impermeabile alle sollecitazioni dell’ambiente – la giovane manicure belga procede, lungo il suo progressivo cammino verso l’alienazione, a tutta una serie di forme di esclusione, di eliminazione, più o meno radicali, delle fonti percettive che la ossessionano (visive in primis, ma anche uditive e tattili). Dapprima, attraverso il suo ritirarsi in quel luogo per lei claustrale (ma che diventa però claustrofobico), che è l’appartamento dove abita, Carol cerca di porre fra sé ed il mondo esterno la barriera costituita dai muri, dalle finestre (che verranno chiuse ed “accecate” attraverso le tende) e dalla porta d’ingresso; barriere assai fragili, invero, visto che vengono di continuo violate dai suoni e dai rumori provenienti dall’esterno, dai misteriosi assalitori che popolano le sue notti insonni, nonché dai due individui che Carol, nel convulso finale, uccide. Implacabile ed inevitabile assedio del quotidiano e della vita, con tutta la loro carica di aggressività ed invasività, ma anche, forse, l’incedere della frantumazione dell’Io, attraverso la distorsione sistematica della realtà, l’allucinazione, l’incubo. Successivamente, ella procederà ad ulteriori recisioni, su cui spicca quella – fortemente simbolica – del filo del telefono, veicolo di tutte quelle voci senza volto che cercano di mettersi in contatto con lei (il corteggiatore), la rimproverano (il padrone di casa) o la insultano (la moglie dell’amante della sorella che la scambia per quest’ultima). Infine, l’ultimo decisivo e terribile sforzo da lei compiuto per trovare la pace consisterà nell’eliminazione fisica del suo (castissimo peraltro) spasimante, nonché del laido padrone di casa, venuto a reclamare l’affitto. Inane, vuoto ed estremo gesto di una persona fragile come il cristallo e tormentata, che tenta disperatamente di diventare l’ultimo essere umano della terra.

Giangiacomo Petrone

Arsenale Rosebud

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