Regia: Joseph Losey
Francia – Italia - Germania occidentale, 1980, colore
Durata:
Interpreti: Ruggero Raimondi (Don Giovanni), John Macurdy (Commendatore), Edda Moser (Donna Anna), Kiri Te Kanawa (Donna Elvira), Kenneth Riegel (Don Ottavio), José Van Dam (Leporello), Teresa Berganza (Zerlina), Malcolm King (Masetto), Eric Adjani (valletto).
Don Giovanni, nume tutelare ed archetipo di tutti i libertini, concupisce donne, tutte, tanto per non sbagliare, ed è disposto ad ogni azione, trama ed inganno per raggiungere i propri scopi. L’uccisione del padre di una delle sue tante prede lo condurrà alla rovina ed alla morte, che si manifesteranno sotto la forma del fantasma dell’assassinato, che tornerà momentaneamente dal mondo dei trapassati per esigere la vendetta.
Molti sono i motivi che possono aver condotto Losey ad azzardare un’operazione tanto rischiosa quanto affascinante come quella della riproposizione cinematografica della storia del “dissoluto punito”,[1] così come innumerevoli sono gli spunti, i temi, le aperture di significato ed anche i piaceri che essa elargisce. Innanzitutto, perché utilizzare proprio il Don Giovanni mozartiano, per elaborare quelli che, come si vedrà fra breve, risultano essere alcuni fra i temi prediletti del regista statunitense? La risposta può essere trovata nelle parole di Søren Kierkegaard, che, non solo ha molto amato l’opera di Mozart, ma le ha addirittura dedicato un intero saggio, oltre a costruire attorno alla figura del licenzioso nobile uno degli archetipi di riferimento del proprio sistema filosofico: “[…] il Don Giovanni, dato il carattere astratto dell’idea, vivrà eterno in tutti i tempi, e voler comporre un Don Giovanni dopo Mozart sarà sempre come un’Iliade post Homerum, e in senso assai più profondo che per Omero.”[2] Losey sembra riconoscere la saggezza delle parole di Kierkegaard e, di conseguenza, il rischio e l’inanità di una rivisitazione capace di prescindere dal modello mozartiano, quindi propone un’opera filmica estremamente fedele alla lettera del testo di Mozart-Da Ponte.[3] In questa “fedeltà” è possibile, paradossalmente, riscontrare uno dei motivi che rendono il lavoro di Losey un’opera di cinema a pieno titolo, anziché un semplice e decorativo esperimento di teatro filmato.
Losey mantiene intatta, da un lato, l’essenza dell’opera mozartiana – la musica e la musicalità, la poeticità geniale ed intrigante del testo di Da Ponte, la caratterizzazione ed il ruolo dei personaggi – ma, dall’altro, rielabora la struttura scenica (girando gli esterni nella campagna veneta, od in prossimità di edifici palladiani, per esempio della Rotonda, ed utilizzando per gli interni le straordinarie possibilità offerte dai medesimi edifici, fra cui risalta in tutta la sua magnificenza il Teatro Olimpico di Vicenza), riuscendo a creare una tensione incessante, sia nei rapporti fra i personaggi, sia fra i personaggi stessi e l’ambiente circostante, tali da far emergere pienamente il suo stile registico nonché le tematiche che connotano la sua poetica e la sua visione del mondo. Le immagini risultano tutt’altro che pacificate o meramente funzionali allo sviluppo narrativo, ma esprimono, con costante intensità, un conflitto persistente e mai del tutto risolto, che coinvolge non soltanto i personaggi, ma anche la forma stessa del visivo. È l’immagine dialettica a farla da padrona, frutto non solo dell’originalità dello stile di Losey, ma anche della frequentazione che il regista statunitense intrattenne con uno dei maestri indiscussi di tale concezione dell’immagine: Sergej Michailovič Ejzenštejn. Tale immagine cattura l’immanente conflitto del mondo, un conflitto originario e preesistente ad ogni forma di vita individuale ed associata. Essa esprime la forza trainante interna della realtà e della storia, che muove e fa evolvere le cose o, semplicemente, senza riuscire a produrre un salto qualitativo in grado di spazzare definitivamente l’obsolescenza del vecchio, crea cortocircuiti incapaci di produrre il nuovo. Di qui la frase di Gramsci in calce nei titoli di testa del film: “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” L’immagine dialettica percorre ed agita il film dal principio alla fine, in molti modi e sotto svariate forme, per poi giungere alla conclusione che, tutto sommato, la dipartita di Don Giovanni non costituisce l’avvento di una nuova era, ma semplicemente la restaurazione dell’ordine originario, senza che nessun individuo e nessuna classe sociale siano veramente maturi in vista di un cambiamento fattuale e radicale.
Innumerevoli sono le opposizioni che pervadono il film, conferendogli ritmo e dinamismo, in un movimento che, lungi dall’essere lineare, si caratterizza invece per la propria spiccata circolarità; una iterazione continua di segni, situazioni, ritorni e ripetizioni, che mai sembra trovare un effettivo superamento, salvo forse nell’arrembante (pre)finale. Innanzitutto, va notato come, a livello metafilmico, si situino almeno due coppie di duali. La prima concerne il confronto fra le convenzioni cinematografiche e quelle teatrali. La fedeltà al testo ed alle convenzioni del teatro lirico (i pensieri dei personaggi che divengono elocuzione cantata, recitativi, l’ovvia assenza di dialoghi parlati e così via) unitamente al linguaggio tipicamente cinematografico (il montaggio, i movimenti di macchina, gli esterni “reali”) creano un senso di estraniamento nello spettatore che si ritrova catapultato al confine fra regimi indiscutibilmente distanti della rappresentazione. La seconda coppia riguarda invece l’epoca di realizzazione dell’opera e la sua ambientazione. L’opera di Mozart viene concepita verso la fine del ‘700 ed è ambientata nella prima metà del ‘600. Il film di Losey è della fine degli anni ’70 ed è ambientato nel tardo ‘700. Losey decide quindi di focalizzare la propria attenzione non sul contesto di finzione, ma su quello reale che ha generato l’opera di Mozart, che è il contesto in cui matura
Il fuoco (la fucina dei maestri vetrai) e l’acqua (i canali che conducono le imbarcazioni dei personaggi da un luogo all’altro, in una specie di labirinto topografico) aprono invece le danze dell’opera, istituendo il primo confronto di duali relativi all’ambito filmico vero e proprio. La fiamma della passione sensuale, ma anche dello straripante desiderio di rivalsa femminile nei confronti del libertino, si trasformerà, nel finale, nel bruciore cupo e sordo della dannazione infernale. L’acqua, superficie illusoriamente uniforme, ma ingannevole e torbida come le pulsioni innominabili che animano, in un modo o nell’altro, tutti i personaggi, o scrosciante pioggia, potrà essere veicolo di morte (la scena dell’uccisione del Commendatore) o di vendetta (le tre Maschere, cioè Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira che arrivano alla festa di Don Giovanni in barca, o Don Giovanni stesso che di notte, dopo lo scambio di abiti e di identità con Leporello, giunge anch’egli in barca al cimitero dove riposa il commendatore, la cui voce acusmatica è presagio della prossima fine del protagonista). L’architettura palladiana, edifici e giardini, ordinati, lineari, perfettamente prospettici e geometrici (un’architettura indifferente, che, proprio a causa di tale indifferenza crea tensione nel conflitto con la potenza delle pulsioni), si contrappone invece al disordine del desiderio, erotico o di vendetta, e soprattutto alla tipologia di pulsione che Losey ha sovente cercato di evocare ed illustrare nei suoi film: la pulsione di servilità. È il regista stesso a tracciare le coordinate di questa particolarissima forma di impulso, in un’intervista relativa ad uno dei suoi capolavori, Il Servo (1963): “Per me il film è solo un film sulla servilità, servilità della nostra società, servilità del padrone, servilità del servo e servilità nell’atteggiamento di ogni specie di persona che rappresenta classi e situazioni diverse […]. È una società della paura, e nella maggior parte dei casi la reazione davanti alla paura non è la resistenza o la lotta, ma la servilità, e la servilità è uno stato dello spirito.” Questo impulso percorre tutto il film in ogni senso e direzione, pervadendo personaggi e classi sociali. Servile è naturalmente l’atteggiamento di Leporello nei confronti del padrone, ma servili sono altresì le donne nei confronti del superuomo Don Giovanni, così come quest’ultimo lo è nei loro, e tutto perché ciascuno dei personaggi teme di perdere o di non ottenere ciò di cui ha bisogno. In tal modo, ciò che nasce come un atteggiamento necessitato dalle circostanze diviene un habitus, una seconda natura. Analogo discorso può essere condotto a proposito delle classi sociali, di cui i singoli personaggi sono rappresentazione. La servilità dei domestici è ovvia e fuori discussione; lo è invece un po’ meno quella del padrone “liberale” Don Giovanni nei confronti di Leporello, che, quando fa mostra di volersene andare definitivamente, viene circuito con mille moine (e qualche moneta) dal suo signore, il quale, non appena ottiene ciò che vuole, riprende però a trattarlo come uno zerbino. Servili sono anche i contadini, irretiti dalla munificenza populista del nobile “democratico” che elargisce loro “cioccolata, caffè, vini, prosciutti” ed un po’ di svago, così come lo è, almeno inizialmente, anche Masetto (“chino il capo e me ne vo”), che lascia andare via, solo con qualche timido accenno di protesta, la promessa sposa con Don Giovanni. Servile è altresì la nobiltà, nei confronti dell’ordine che essa stessa ha creato: regole, precetti e costumi che il letteralmente “scostumato” Don Giovanni continua ad infrangere. Servile è anche, in ultima istanza, l’atteggiamento di un’intera epoca e di un’intera società, che, fondamentalmente, hanno paura di se stesse, costituendo uno specchio, neppure troppo deformante, del mondo in cui viviamo.
L’unico rapporto che, pur contemplando la vendetta (e senza alcun accenno di servilità), ne trascende l’aspetto meramente pulsionale è quello fra il Commendatore e Don Giovanni. Esso può essere interpretato sia alla luce della psicanalisi freudiana come contrapposizione fra Legge e Desiderio, fra Super-io ed Es, fra padre e figlio (si tenga presente il problematico rapporto fra Mozart e la figura dell’autoritario padre), ma anche e forse soprattutto come conflitto fra vecchio e nuovo. Tenendo presente che, in ogni caso, Don Giovanni, nobile, dispotico e demagogo, è tutt’altro che un simbolo di effettiva novità e trasformazione, l’unico che ne avrà ragione non sarà il rappresentante di una classe sociale nuova, giovane ed emergente, ma della vecchia nobiltà e del vecchio potere. Una volta sconfitto l’eversore, l’ordine preesistente potrà finalmente essere ristabilito.
Don Giovanni è, in ultima analisi, un inattuale, a suo modo un rivoluzionario, una figura di confine prigioniera della libertà di esercitare impunemente e smodatamente i propri desideri, torbidi e sensuali ad un tempo, un illuminista ed un romantico, un folle, anarchico ribelle, egocentrico ed edonista, ebbro di vita e di morte, non poi così distante da un illustre e sinistro “fratello di sangue”: Donatien-Alphonse-François, marchese di Sade. Le parole che quest’ultimo scrisse dal carcere alla moglie nel novembre del 1783 (quale mirabile contiguità cronologica!) possono servire da epitaffio per entrambi: “Prepotente, collerico, violento, eccessivo in tutto, di una sregolatezza senza eguali nell’immaginazione erotica, ateo sino al fanatismo, eccomi in due parole, e ancora una cosa, ammazzatemi o prendetemi come sono, perché io non cambierò.”
Gruppo Cinema Arsenale Rosebud
Gian Giacomo Petrone
[1] Come recita la locandina della prima rappresentazione del Don Giovanni a Praga, il 29 ottobre del 1787: Don Giovanni ossia il Dissoluto punito.
[2] Søren Kierkegaard, Don Giovanni – La musica di Mozart e l’eros.
[3] Salvo alcune licenze, come la presenza dello psicopompo valletto muto e perennemente in nero, Eric Adjani, fratello della più famosa Isabelle.
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